00 11/02/2010 23:05
XXIII.
Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini:

poi trova un Colombo, che lo porta sulla riva del mare, e lí si getta nell’acqua

per andare in aiuto del suo babbo Geppetto.



Appena Pinocchio non sentí piú il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso ai campi, e non si fermò un solo minuto finché non ebbe raggiunta la strada maestra, che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.

Arrivato sulla strada maestra, si voltò in giú a guardare nella sottoposta pianura, e vide benissimo, a occhio nudo, il bosco, dove disgraziatamente aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, inalzarsi la cima di quella Quercia grande, alla quale era stato appeso ciondoloni per il collo: ma, guarda di qui, guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini.

Allora ebbe una specie di tristo presentimento, e datosi a correre con quanta forza gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi minuti sul prato, dove sorgeva una volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca non c’era piú. C’era, invece, una piccola pietra di marmo, sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole:



QUI GIACE

LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI

MORTA DI DOLORE

PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO

FRATELLINO PINOCCHIO




Come rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra, e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dètte in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse piú lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano cosí strazianti ed acuti, che tutte le colline all’intorno ne ripetevano l’eco.

E piangendo diceva:

«O Fatina mia, perché sei morta?... perché, invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona?... E il mio babbo dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, ché voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo piú! piú! piú!... O Fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta!... Se davvero mi vuoi bene... se vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci... ritorna viva come prima!... Non ti dispiace a vedermi solo, abbandonato da tutti?... Se arrivano gli assassini, mi attaccheranno daccapo al ramo dell’albero... e allora morirò per sempre. Che vuoi che io faccia qui solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove anderò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io! Sí, voglio morire! ih! ih! ih!...»

E mentre si disperava a questo modo, fece l’atto di volersi strappare i capelli: ma i suoi capelli, essendo di legno, non poté nemmeno levarsi il gusto di ficcarci dentro le dita.

Intanto passò su per aria un grosso Colombo, il quale soffermatosi, a ali distese, gli gridò da una grande altezza:

— Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiú?

— Non lo vedi? piango! — disse Pinocchio alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta.

— Dimmi — soggiunse allora il Colombo — non conosci per caso fra i tuoi compagni, un burattino, che ha nome Pinocchio?

— Pinocchio?... Hai detto Pinocchio? — ripeté il burattino saltando subito in piedi. — Pinocchio sono io! —

Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi a terra. Era piú grosso di un tacchino.

— Conoscerai dunque anche Geppetto! — domandò al burattino.

— Se lo conosco! È il mio povero babbo! Ti ha forse parlato di me? Mi conduci da lui? ma è sempre vivo? rispondimi per carità; è sempre vivo?

— L’ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare.

— Che cosa faceva?

— Si fabbricava da sé una piccola barchetta, per traversare l’Oceano. Quel pover’uomo sono piú di quattro mesi che gira per il mondo in cerca di te: e non avendoti potuto mai trovare, ora si è messo in capo di cercarti nei paesi lontani del nuovo mondo.

— Quanto c’è di qui alla spiaggia? — domandò Pinocchio con ansia affannosa.

— Piú di mille chilometri.

— Mille chilometri? O Colombo mio, che bella cosa potessi avere le tue ali!...

— Se vuoi venire, ti ci porto io.

— Come?

— A cavallo sulla mia groppa. Sei peso dimolto?

— Peso? tutt’altro! Son leggiero come una foglia. —

E lí, senza stare a dir altro, Pinocchio saltò sulla groppa al Colombo; e messa una gamba di qui e l’altra di là, come fanno i cavallerizzi, gridò tutto contento: «Galoppa, galoppa, cavallino, ché mi preme di arrivar presto!...»

Il Colombo prese l’aíre e in pochi minuti arrivò col volo tanto in alto, che toccava quasi le nuvole. Giunto a quell’altezza straordinaria, il burattino ebbe la curiosità di voltarsi in giú a guardare: e fu preso da tanta paura e da tali giracapi che, per evitare il pericolo di venir di sotto, si avviticchiò colle braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata cavalcatura.

Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:

— Ho una gran sete!

— E io una gran fame! — soggiunse Pinocchio.

— Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare. —

Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di vecce.

Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le vecce: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse:

— Non avrei mai creduto che le vecce fossero cosí buone!

— Bisogna persuadersi, ragazzo mio, — replicò il Colombo — che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le vecce diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie! —

Fatto alla svelta un piccolo spuntino, si riposero in viaggio, e via! La mattina dopo arrivarono sulla spiaggia del mare.

Il Colombo posò a terra Pinocchio, e non volendo nemmeno la seccatura di sentirsi ringraziare per aver fatto una buona azione, riprese subito il volo e sparí.

La spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava, guardando verso il mare.

— Che cos’è accaduto? — domandò Pinocchio a una vecchina.

— Gli è accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliuolo, gli è voluto entrare in una barchetta per andare a cercarlo di là dal mare; e il mare oggi è molto cattivo e la barchetta sta per andare sott’acqua...

— Dov’è la barchetta?

— Eccola laggiú, diritta al mio dito — disse la vecchia, accennando una piccola barca che, veduta a quella distanza, pareva un guscio di noce con dentro un omino piccino piccino.

Pinocchio appuntò gli occhi da quella parte, e dopo aver guardato attentamente, cacciò un urlo acutissimo gridando:

— Gli è il mi’ babbo! gli è il mi’ babbo! —

Intanto la barchetta, sbattuta dall’infuriare dell’onde, ora spariva fra i grossi cavalloni, ora tornava a galleggiare: e Pinocchio, ritto sulla punta di un alto scoglio, non finiva piú dal chiamare il suo babbo per nome, e dal fargli molti segnali colle mani e col moccichino da naso e perfino col berretto che aveva in capo.

E parve che Geppetto, sebbene fosse molto lontano dalla spiaggia, riconoscesse il figliuolo, perché si levò il berretto anche lui e lo salutò e, a furia di gesti, gli fece capire che sarebbe tornato volentieri indietro; ma il mare era tanto grosso, che gl’impediva di lavorare col remo e di potersi avvicinare alla terra.

Tutt’a un tratto venne una terribile ondata, e la barca sparí. Aspettarono che la barca tornasse a galla; ma la barca non si vide piú tornare.

— Pover’omo — dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una preghiera, si mossero per tornarsene alle loro case.

Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e voltandosi indietro, videro un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio, si gettava in mare gridando:

— Voglio salvare il mio babbo! —

Pinocchio, essendo tutto di legno, galleggiava facilmente e nuotava come un pesce. Ora si vedeva sparire sott’acqua, portato dall’impeto dei flutti, ora riappariva fuori con una gamba o con un braccio, a grandissima distanza dalla terra. Alla fine lo persero d’occhio e non lo videro piú.

— Povero ragazzo! — dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una preghiera, tornarono alle loro case.



XXIV.

Pinocchio arriva all’isola delle «Api industriose» e ritrova la Fata.



Pinocchio, animato dalla speranza di arrivare in tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta la notte.

E che orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente e con certi lampi, che pareva di giorno.

Sul far del mattino, gli riuscí di vedere poco distante una lunga striscia di terra. Era un’isola in mezzo al mare.

Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna, venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena del lido.

Il colpo fu cosí forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire:

— Anche per questa volta l’ho scampata bella! —

Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in tutto il suo splendore, e il mare diventò tranquillissimo e buono come un olio.

Allora il burattino distese i suoi panni al sole per rasciugarli, e si pose a guardare di qua e di là se per caso avesse potuto scorgere su quella immensa spianata d’acqua una piccola barchetta con un omino dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non vide altro dinanzi a sé che cielo, mare e qualche vela di bastimento, ma cosí lontana lontana, che pareva una mosca.

— Sapessi almeno come si chiama quest’isola! — andava dicendo. — Sapessi almeno se quest’isola è abitata da gente di garbo, voglio dire da gente che non abbia il vizio di attaccare i ragazzi ai rami degli alberi! ma a chi mai posso domandarlo? a chi, se non c’è nessuno?... —

Quest’idea di trovarsi solo, solo, solo, in mezzo a quel gran paese disabitato, gli messe addosso tanta malinconia, che stava lí lí per piangere; quando tutt’a un tratto vide passare, a poca distanza dalla riva, un grosso pesce, che se ne andava tranquillamente per i fatti suoi, con tutta la testa fuori dell’acqua.

Non sapendo come chiamarlo per nome, il burattino gli gridò a voce alta, per farsi sentire:

— Ehi, signor pesce, che mi permetterebbe una parola?

— Anche due — rispose il pesce, il quale era un Delfino cosí garbato, come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo.

— Mi farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare, senza pericolo d’esser mangiati?

— Ve ne sono sicuro — rispose il Delfino. — Anzi, ne troverai uno poco lontano di qui.

— E che strada si fa per andarvi?

— Devi prendere quella viottola là, a mancina, e camminare sempre diritto al naso. Non puoi sbagliare.

— Mi dica un’altra cosa. Lei che passeggia tutto il giorno e tutta la notte per il mare, non avrebbe incontrato per caso una piccola barchettina con dentro il mi’ babbo?

— E chi è il tuo babbo?

— Gli è il più babbo buono del mondo, come io sono il figliuolo più cattivo che si possa dare.

— Colla burrasca che ha fatto questa notte — rispose il Delfino — la barchetta sarà andata sott’acqua.

— E il mio babbo?

— A quest’ora l’avrà inghiottito il terribile pesce-cane, che da qualche giorno è venuto a spargere lo sterminio e la desolazione nelle nostre acque.

— Che è grosso dimolto questo pesce-cane? — domandò Pinocchio, che di già cominciava a tremare dalla paura.

— Se gli è grosso!... — replicò il Delfino. — Perché tu possa fartene un’idea, ti dirò che è piú grosso di un casamento di cinque piani, ed ha una boccaccia cosí larga e profonda, che ci passerebbe comodamente tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa.

— Mamma mia! — gridò spaventato il burattino; e rivestitosi in fretta e furia, si voltò al Delfino e gli disse:

— Arrivedella, signor pesce: scusi tanto l’incomodo e mille grazie della sua garbatezza. —

Detto ciò, prese subito la viottola e cominciò a camminare di un passo svelto: tanto svelto, che pareva quasi che corresse. E a ogni piú piccolo rumore che sentiva, si voltava subito a guardare indietro, per la paura di vedersi inseguire da quel terribile pesce-cane grosso come una casa di cinque piani e con un treno della strada ferrata in bocca.

Dopo aver camminato piú di mezz’ora, arrivò a un piccolo paese detto «il paese delle Api industriose». Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare. Non si trovava un ozioso o un vagabondo, nemmeno a cercarlo col lumicino.

— Ho capito; — disse subito quello svogliato di Pinocchio — questo paese non è fatto per me! Io non son nato per lavorare! —

Intanto la fame lo tormentava; perché erano oramai passate ventiquattr’ore che non aveva mangiato piú nulla; nemmeno una pietanza di vecce.

Che fare?

Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un po’ di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un boccon di pane.

A chiedere l’elemosina si vergognava: perché il suo babbo gli aveva predicato sempre che l’elemosina hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e gl’infermi. I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di malattia, si trovano condannati a non potersi piú guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro.

In quel frattempo, passò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato, il quale da sé solo tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone.

Pinocchio, giudicandolo dalla fisonomia per un buon uomo, gli si accostò e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce:

— Mi fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir dalla fame?

— Non un soldo solo — rispose il carbonaio — ma te ne do quattro, a patto che tu m’aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone.

— Mi meraviglio! — rispose il burattino quasi offeso; — per vostra regola io non ho fatto mai il somaro: io non ho mai tirato il carretto!

— Meglio per te! — rispose il carbonaio. — Allora, ragazzo mio, se ti senti davvero morir dalla fame, mangia due belle fette della tua superbia, e bada di non prendere un’indigestione. —

Dopo pochi minuti passò per la via un muratore, che portava sulle spalle un corbello di calcina.

— Fareste, galantuomo, la carità d’un soldo a un povero ragazzo, che sbadiglia dall’appetito?

— Volentieri; vieni con me a portar calcina — rispose il muratore — e invece d’un soldo, te ne darò cinque.

— Ma la calcina è pesa — replicò Pinocchio — e io non voglio durar fatica.

— Se non vuoi durar fatica, allora, ragazzo mio, divertiti a sbadigliare, e buon pro ti faccia. —

In men di mezz’ora passarono altre venti persone: e a tutte Pinocchio chiese un po’ d’elemosina, ma tutte gli risposero:

— Non ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, va’ piuttosto a cercarti un po’ di lavoro, e impara a guadagnarti il pane! —

Finalmente passò una buona donnina che portava due brocche d’acqua.

— Vi contentate, buona donna, che io beva una sorsata d’acqua dalla vostra brocca? — disse Pinocchio, che bruciava dall’arsione della sete.

— Bevi pure, ragazzo mio! — disse la donnina, posando le due brocche in terra.

Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la bocca:

— La sete me la son levata! Cosí mi potessi levar la fame!... —

La buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito:

— Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane. —

Pinocchio guardò la brocca e non rispose né sí né no.

— E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e coll’aceto — soggiunse la buona donna.

Pinocchio dètte un’altra occhiata alla brocca, e non rispose né sí né no.

— E dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio. —

Alle seduzioni di quest’ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe piú resistere, e fatto un animo risoluto, disse:

— Pazienza! vi porterò la brocca fino a casa! —

La brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza da portarla colle mani, si rassegnò a portarla in capo.

Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola tavola apparecchiata, e gli pose davanti il pane, il cavolfiore condito e il confetto.

Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi.

Calmati a poco a poco i morsi rabbiosi della fame, allora alzò il capo per ringraziare la sua benefattrice: ma non aveva ancora finito di fissarla in volto, che cacciò un lunghissimo ohhh! di maraviglia, e rimase là incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per aria e colla bocca piena di pane e di cavolfiore.

— Che cos’è mai tutta questa meraviglia? — disse ridendo la buona donna.

— Egli è... — rispose balbettando Pinocchio — egli è... egli è..., che voi mi somigliate... voi mi rammentate... sí, sí, sí, la stessa voce... gli stessi occhi... gli stessi capelli... sí, sí, sí... anche voi avete i capelli turchini... come lei!... O Fatina mia!... o Fatina mia!... ditemi che siete voi, proprio voi!... Non mi fate piú piangere! Se sapeste! Ho pianto tanto, ho patito tanto!... —

E nel dir cosí, Pinocchio piangeva dirottamente, e gettatosi ginocchioni per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.



XXV.

Pinocchio promette alla Fata di esser buono e di studiare,

perché è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.




In sulle prime, la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare piú in lungo la commedia, finí per farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:

— Birba d’un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?

— Gli è il gran bene che vi voglio, quello che me l’ha detto.

— Ti ricordi, eh? Mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che potrei quasi farti da mamma.

— E io l’ho caro dimolto, perché cosí, invece di sorellina, vi chiamerò la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri ragazzi!... Ma come avete fatto a crescere cosí presto?

— È un segreto.

— Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come un soldo di cacio.

— Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.

— Perché?

— Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.

— Oh! sono stufo di far sempre il burattino! — gridò Pinocchio, dandosi uno scappellotto. — Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo...

— E lo diventerai, se saprai meritarlo...

— Davvero? E che posso fare per meritarmelo?

— Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.

— O che forse non sono?

— Tutt’altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece...

— E io non ubbidisco mai.

— I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu...

— E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l’anno.

— I ragazzi perbene dicono sempre la verità...

— E io sempre le bugie.

— I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola...

— E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar vita.

— Me lo prometti?

— Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene, e voglio essere la consolazione del mio babbo... Dove sarà il mio povero babbo a quest’ora?

— Non lo so.

— Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?

— Credo di sí: anzi ne sono sicura. —

A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di sé. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò:

— Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta?

— Par di no — rispose sorridendo la Fata.

— Se tu sapessi che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi qui giace...

— Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma...

— Oh! che bella cosa! — gridò Pinocchio saltando dall’allegrezza.

— Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.

— Volentieri, volentieri, volentieri!

— Fino da domani — soggiunse la Fata — tu comincerai coll’andare a scuola. —

Pinocchio diventò subito un po’ meno allegro.

— Poi sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere... —

Pinocchio diventò serio.

— Che cosa brontoli fra i denti? — domandò la Fata con accento risentito.

— Dicevo... — mugolò il burattino a mezza voce — che oramai per andare a scuola mi pare un po’ tardi...

— Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.

— Ma io non voglio fare né arti né mestieri...

— Perché?

— Perché a lavorare mi par fatica.

— Ragazzo mio, — disse la Fata — quelli che dicono cosí, finiscono quasi sempre o in carcere o allo spedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia e bisogna guarirla subito, fin da bambini: se no, quando siamo grandi, non si guarisce piú. —

Queste parole toccarono l’animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa, disse alla Fata:

— Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perché, insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i costi. Me l’hai promesso, non è vero?

— Te l’ho promesso, e ora dipende da te. —


vanni