00 08/11/2008 22:30
Sul palcoscenico la satira c'è ancora



A teatro i nuovi show della Guzzanti e di Luttazzi con tutte le battute che in tivù non si ascoltano più
ANDREA SCANZI


FIRENZE
Per avere un’idea di cosa dica la satira in Italia, occorre andare a teatro e rintracciare chi la fa. Ad esempio, Daniele Luttazzi e Sabina Guzzanti. Il primo esordirà venerdì al Gran Teatro di Roma, ma in questi giorni sta testando il monologo con prove pubbliche (mercoledì scorso, a Montepulciano). La seconda ha debuttato con successo giovedì al Saschall di Firenze.

Parlare della Guzzanti è complicato. I detrattori la reputano greve, gli esegeti gridano al miracolo anche solo per qualche sketch ad Annozero. Della questione artistica non sembra importare nulla a nessuno. Vilipendio chiarisce le idee: è uno dei suoi spettacoli migliori. Ambizioso, a partire dalla scenografia e dai filmati, che riverberano gli strali. La satirica sale sul palco incappucciata (anni fa lo faceva anche Beppe Grillo, cui sempre più si ispira), tacchi a spillo che toglie per una irresistibile danza maori anti-berlusconiana («Trema nano di m... a»). Si improvvisa dj, canta, s’infervora. Chiude con una versione un po’ celebrativa de L’avvelenata e la citazione di Bob Dylan in Subterranean Homesick Blues.

Le punture più efficaci sono dedicate all’opposizione: la garantista Finocchiaro, Bertinotti che non fa mai autocritica, il revisionismo di Pansa, D’Alema che si vanta della leggerezza del Partito democratico («Siamo senza programma, senza elettorato: leggerissimi»), Fassino e Bordon che «non hanno mosso un dito per difendere me o Luttazzi, ma hanno fatto il diavolo a quattro per salvare Incantesimo, forse perché ci lavorava la moglie di Bordon». La seconda parte è più comiziante, un po’ appesantita. È qui che in parte torna il problema che la Guzzanti si porta dietro da Raiot in poi: tradurre la rabbia tracimante in battute che funzionino. Ci sono critiche a Pasolini (sul Sessantotto) e a Nanni Moretti («Girotondi era un nome ridicolo, basta con queste scomuniche morettiane»). Sulle note di Personal Jesus dei Depeche Mode, la politica italiana diventa una Sodoma e Gomorra fatta di cocainomani ed erotomani, fellatio che la satirica simula dettagliatamente (sulla Carfagna non c’è alcun arretramento) e un Berlusconi ebbro di Viagra, con fallo gigantesco e sogno proibito: Putin («che però è pedofilo»).

Ben più minimale, e maggiormente scritto, è il Decameron di Luttazzi. Un uomo solo con il suo leggio. La battuta su Giuliano Ferrara, che avrebbe portato alla censura del programma, è riadattata sull’attuale governo, ministro per ministro («Come faccio a sopportare Bondi? Lo immagino a una mostra di Andy Warhol schiaffeggiato da Dita Von Teese con un fallo di gomma»). Dizione iperveloce, prima parte politica e seconda religiosa. Satira di talento e a tutto tondo: dal surreale al poetico, dal nonsense al grottesco. Da una parte c’è Berlusconi che «sa raccontare storie», dall’altra un Veltroni che sta a Berlusconi «come Bobby a J.R, quando fa il cattivo non gli crede nessuno, va fuori personaggio». Veltroni «è l’acqua calda che tarda a uscire dal rubinetto: con Berlusconi ha un rapporto malato, come la moglie che dopo le botte torna dal marito». E il Partito democratico «da liquido è già passato allo stato gassoso».

Luttazzi sostiene che la satira «è come uno stormo di piccioni». È nella sua natura essere contro qualsiasi potere, non sostituirsi ad esso: l’ambizione che contesta a Grillo e in parte alla Guzzanti. Per questo non ha accettato gli inviti del movimento studentesco: «Sono già fortissimi da soli». Fedele al suo ruolo in maniera tibetana, Luttazzi balla da solo ma vorrebbe ballare in Rai. Prima spiega il successo di Berlusconi con la metafora delle «tre fasi del sesso anale», poi immagina di condurre uno show su Raiuno mostrando una Via Crucis delle mucche e una tirata contro Papa Ratzinger: un po’ troppo, in un Paese in cui fa quasi paura perfino la Dandini.


da www.lastampa.it/


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