«Inevitabile che in tempi di crisi economica il dibattito prenda una piega protezionista»
Bhagwati: «Troppe paure inutili sull'Asia.
La concorrenza avviene tra Stati efficienti»
Parla l'economista di origine indiana difensore del «free trade»: libero scambio minato dai tanti accordi bilaterali
NEW YORK - «Obama la sta spuntando sulla Clinton ed è un bene. Certo, il dibattito in casa democratica ha preso da tempo una piega protezionista. Non è una buona notizia per chi, come me, crede nella globalizzazione. Ma in un periodo di incertezza economica, nel clima di paura che si è creato, era in parte inevitabile. Non credo, comunque, che la cosa avrà grosse conseguenze concrete. L'economia aperta è ormai una realtà consolidata. E, comunque, le credenziali del senatore dell'Illinois sono sicuramente migliori di quelle di Hillary, per quanto riguarda la fiducia nel mercato».
Jagdish Bhagwati, l'economista di origine indiana della Columbia University che da anni è il difensore più determinato delle frontiere del liberismo e del «free trade», vive senza troppa angoscia questa fase di grandi rivolgimenti economici - recessione Usa, crisi del credito, esplosione dei prezzi dei cereali e del petrolio - che fanno crescere le tentazioni protezioniste in gran parte dell'Occidente e anche negli Stati Uniti, il Paese-guida della globalizzazione.
Eppure tanto la Clinton quanto Obama promettono, se andranno alla Casa Bianca, di rimettere in discussione le politiche attuali a cominciare dal Nafta, l'accordo di libero scambio tra Usa, Messico e Canada.
«E' solo retorica. Mi aspetto qualche aggiornamento dei patti: una cosa del tutto comprensibile, vista la complessità del trattato e la rapida evoluzione della realtà economica. Ma non ci saranno dietrofront. Sarebbe come scatenare una guerra termonucleare sapendo di esporre la propria popolazione alla rappresaglia del nemico. Poi che si fa? Si cacciano 12 milioni di immigrati clandestini ispanici? So che le campagne elettorali condizionano la dialettica politica e non mi spavento. Semmai, da democratico, noto con piacere che Obama è riuscito a non finire nel vortice delle promesse demagogiche ai sindacati. E' anche l'unico candidato che ha avuto il coraggio di scontrarsi con Lou Dobbs, il tribuno che ogni sera, dagli schermi della Cnn, aizza per un'ora l'America, invitandola a osteggiare il "free trade" e a mandare via gli immigrati».
Il clima, però, è molto cambiato. E' cambiato anche rispetto a tre anni fa quando, davanti alle prime critiche alla piena apertura dei mercati come quelle di Stiglitz, lei replicò col suo "In difesa della globalizzazione" (divenuto "Contro il protezionismo" nell' edizione italiana), il libro di riferimento di tutti i sostenitori del "free trade". E' cambiato qui ed è cambiato in Europa. Nelle recenti elezioni italiane, ad esempio, molti operai spaventati del Nord sono passati dai partiti della sinistra alla Lega.
«Certo non sono tempi facili e il problema non è solo quello delle paure poco razionali che si diffondono o della contrazione dei redditi dei lavoratori più esposti alla concorrenza internazionale. Nel mio prossimo libro "Termiti nel sistema commerciale" (uscirà a luglio), racconto, ad esempio, come una fitta rete di accordi preferenziali bilaterali abbia finito per minare i meccanismi del libero scambio. Tutti questi accordi - Usa-Perù, Usa-Colombia - sono squilibrati, sono deviazioni dalle regole generali che ne escono indebolite».
Ritira la patente di "liberoscambista" anche a Bush?
«Riconosco ai repubblicani una certa coerenza sui temi del mercato. Ma questa Amministrazione ha fatto errori clamorosi. Ad esempio quello di costringere il Congresso a discutere e votare una miriade di accordi commerciali bilaterali uno alla volta anziché riunirli in una sessione unica. Ai parlamentari possiamo chiedere di essere responsabili, ma non dobbiamo metterli nelle condizioni di dover spiegare agli elettori dei loro collegi che, settimana dopo settimana, si sono occupati sempre di libero commercio con questo o quel Paese».
Francesco Giavazzi, un docente che insegna in Italia e negli Usa e che si batte da anni per far penetrare nel nostro Paese la cultura della sana competizione, del mercato come solvente dei privilegi e delle rendite di posizione, ha notato di recente sul "Corriere", con una certa amarezza, che il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi vorrebbe meno Stato e più mercato: i cittadini premiano non chi propone regole più chiare per far funzionare meglio il capitalismo, ma chi promette protezione dal vento della concorrenza. E si chiede: dove abbiamo sbagliato?
«Certo, non è un periodo esaltante: liberalizzare quando l'economia non cresce è assai difficile. Ma io credo che alla fine la gente capirà che alzando barriere non si va da nessuna parte. Del resto in molte aree i prodotti dell'Occidente non sono insidiati dai manufatti asiatici, ma dalla concorrenza di altri Paesi industrializzati. Per restare a New York, scenda qui sotto, in Madison Avenue, e veda come funziona il sistema della moda. O pensi alla lotta tra Boeing e Airbus. Usa ed Europa. Dov'è la temutissima Asia? Eppure anche lì ci sono ristrutturazioni, tagli feroci, migliaia di persone che perdono il lavoro. Potrei citarle molti altri casi. Un bel problema per chi fa politica, ma gli elettori non potranno rifiutare ad oltranza la realtà. L'integrazione delle economie è già un dato di fatto: un processo innescato dalle tecnologie, più che dal Wto».
Larry Summers, economista e ministro del Tesoro di Bill Clinton, continua a sostenere che gli Usa devono competere e non ritirarsi, ma aggiunge che il dubbio di molti americani che la globalizzazione rappresenti per loro un onere e non un vantaggio è legittimo. Per ricreare consenso attorno ai processi di integrazione delle economie propone quindi interventi per ridurre diseguaglianze e insicurezza del lavoro, almeno negli Usa. Ad esempio, meno concorrenza fiscale tra i vari Paesi e condizioni di lavoro regolate da standard internazionali.
«È un terreno scivoloso. Certo, ci sono principi sui quali siamo tutti d'accordo: nessuno può far lavorare dei bambini 15 ore al giorno. Sono diritti civili universali. Ma su altre cose - orari di lavoro, salari, codici di sicurezza - non vedo come si possano creare standard planetari. Certo, abbiamo le regole ILO, l'agenzia dell'Onu per il lavoro. Ma sono pochi i Paesi che le hanno ratificate e del resto, più che di standard, si tratta di risoluzioni e principi non molto netti. Non è un caso: discriminazioni e diseguaglianze sul lavoro possono essere interpretate in modo diverso da un tribunale in Italia o in Gran Bretagna. Figuriamoci in Asia. Lei vede nel nostro futuro una Corte Suprema mondiale. Un ordine universale può essere un' aspirazione, ma non mi sembrano possibili obblighi uguali per tutti. Intendiamoci: i diritti dei lavoratori meritano di essere protetti. Io, tra l'altro, ho lavorato per Human Rights Watch. Ma proprio quell'esperienza mi ha insegnato che spesso di dice di voler aiutare i lavoratori di altri Paesi quando, in realtà, si ha solo l'obiettivo di ridurre la pressione della competizione internazionale. Pura ipocrisia: meglio parlare chiaro, difendere apertamente i propri interessi, che fingersi altruisti».
Allora che via d'uscita propone? Come si ricrea il consenso sulla globalizzazione? Serve un ruolo più attivo dello Stato nei Paesi industrializzati, come propone, in Italia, il neoministro dell'Economia Giulio Tremonti?
«Per me il ruolo dello Stato deve essere quello di adeguare i sistemi di protezione sociale di welfare, la scuola e la formazione professionale, a una realtà che cambia in fretta. Mica è tutto costo del lavoro: oggi le multinazionali decidono dove impiantare una nuova attività produttiva sulla base di vari fattori. Il lavoro c'è, ma non è sempre il più importante: contano le infrastrutture, il trattamento fiscale, l'energia, l'accesso alle materie prime. E poi, come le ho detto, l'incertezza del lavoratore sempre più spesso deriva da competizioni o crisi (come quella bancaria) tutte interne all'Occidente. L'ansia dei cittadini va curata soprattutto dando loro certezze per quanto riguarda la sanità e l'assistenza a chi perde il lavoro».
L'Europa ha la sanità universale, eppure la gente ha ugualmente paura.
«E' vero. C'è un problema di fragilità del lavoro. Va curato anche attraverso un sistema assicurativo che favorisca il passaggio da un impiego all'altro. Un tempo c'era il sistema sovietico basato su tante piccole nicchie iperspecializzate di lavori "a vita" che nessuno metteva mai in discussione. Oggi abbiamo, al contrario, bisogno di un sistema estremamente flessibile: molta formazione avanzata ma generale e specializzazioni che possono essere rinnovate con relativa facilità. Il radiologo che perde il lavoro perché le lastre si leggono in India deve poter diventare diabetologo o chirurgo plastico senza dover ricominciare tutto daccapo».
Massimo Gaggi
10 maggio 2008
il sonno della ragione genera mostri
caro m'è il sonno, e il più l'esser di sasso
mentre che 'l danno e la vergogna dura
Non veder, non sentir m'è gran ventura.
però non mi destar; deh, parla basso!
Ne plurimi valeant plurimum (Cicero)