Presto, dai vetri aperti stamattina
un baccano di uccelli s'è levato. Folli,
che fate, ho domandato alle chiome
ossidate nel giardino, è novembre.
Sbrigatevi, andate. Lasciate ch'io qui
resti ancora a chiamare per nome ogni cosa,
il grido la piazza. l'arrotino, a ripetere
il fosforo, il fosforo, il cargo, è mattina.
Il mendicante anche se giura
non verrà creduto. Lasciateci.
Che qui resti ancora a guardare, e altri
attraverso il deserto dei rami
tralucano, alberi.
A mio padre
Ti sei lavato, hai indossato abiti intatti,
poi la mente mi slitta ad ogni passo.
Non ho voluto vederti, di certo
ti avranno sdraiato.
Solo vorrei sapere, oppure è un sogno,
che non fu angoscia la tua meticolosa
cura – i documenti posati sulla panca
la sedia che portasti nel giardino, il nodo -
ma un qualche imperscrutabile, ma lieve,
stato. Tutto è con te, segreto.
Forse a spartirne il peso io serbo,
dell’ atto tuo, l’altro versante – il tonfo
della sedia sulla pietra, e la tua assenza
e il dondolio, che cullo, lento, lentissimo
del corpo sotto il pergolato.
da I riccioli della chemio
Ora risorgi. Chiudi un libro. Esci.
Entri nei varchi fra le gocce, nella pioggia.
Quello che deve sopravvivere viva.
Ancora vuoi sapere il capezzolo
dov' è, dove le carni e quale impresa
prelevi, dove porti, come
venga smaltito questo Sondermùll,
ancora vuoi parlare con l'estroso
chirurgo cucitore, che nei lembi
della pelle ti ha cucito
la discarica all' anima.
*
Tracce II
a Etty Hillesum
Non riesco a inginocchiarmi, scrivevi
e hai portato, dentro i giorni dannati dei campi,
per proteggere dio una gioia.
Forse pregare fu quello - le tue ginocchia,
ossa d'ombra sulla pietra, e tu
per questa terra a camminare in volo.
Ora tu credi che basterebbe un niente,
sedere ad un tavolo sgombro
in un'ora propizia, e lavorare ai versi
lavorare ai frammenti. Io sono fatta invece
di questo non scrivere giorno per giorno ;
dentro il sedimentarsi delle piccole
cose, e delle grandi, sono
l'anima ingombra del loro farsi mute.
Terza lettera ad Antigone
Non ti mando la foto, ti descrivo.
Sulla riva, distesi sotto il sole, vedi,
i bei bagnanti, e i pueri, e il cadavere
poco discosto, soltanto dall’acqua lambito.
Non fosse per i vestiti – per gli stracci -
diremmo che è uno del gruppo, fra quelli
ridenti, uno vivo. È un giorno di festa.
Arriveranno gli addetti, più tardi,
a sgomberare quel corpo; altrove
si sbrigherà una pratica,
faranno un’autopsia, verrà inumato.
Questo però non c’è, nella fotografia.
E nemmeno la bava, domani, dei giornali
né la pena beghina per quel morto,
“zingaro – dirà qualcuno – ma bambino…”
C’è questa roccia, invece
fra il cisto e i rosmarini,
questa roccia residua da cui scrivo,
e dentro l’aria una preghiera
e il mare intero, lento
che prima degli addetti il corpo
si porta via, l’istante prima.
C’è il resto del paesaggio a sua custodia.