Staminali, addio ai limiti d’età per il trapianto

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angelico
00lunedì 28 novembre 2011 10:09
l «mini-allotrapianto» può essere un’opzione anche nei pazienti over 60. Approvato in Italia un «vecchio» farmaco


Il mini-allotrapianto può essere un'opzione anche per gli over 60
MILANO – L’età anagrafica non deve più essere considerata di per sé stessa un fattore determinante per decidere se un paziente è candidabile al trapianto allogenico di cellule staminali. Diversi studi hanno portato negli ultimi anni a superare la soglia dei 50-55 anni, considerata per molto tempo il limite massimo per poter sottoporre un malato con un tumore del sangue a una procedura complessa e difficile da tollerare (per l’elevata tossicità) come il trapianto. Un’ulteriore conferma arriva ora da uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Jama da ricercatori americani del Fred Hutchinson Cancer Research Center che hanno analizzato i dati di 372 pazienti con una neoplasia del sangue, un’età fra i 60 e i 75 anni e sottoposti al cosiddetto «mini-allotrapianto» fra il 1998 e il 2008.
MINI-TRAPIANTI, PIU’ FACILI DA TOLLERARE - «Il trapianto allogenico di cellule staminali è un potenziale salvavita per molte forme di tumore del sangue, ma fino a non molti anni fa era un trattamento troppo “pesante” per un ultracinquantenne - spiega Robin Foà, professore di Ematologia e direttore del Centro di Ematologia all’Università Sapienza di Roma -. Un vero problema visto che molte di queste neoplasie colpiscono soprattutto in età avanzata e che (specialmente in Italia) la popolazione invecchia. Insomma, si vive di più e meglio. E il trapianto era precluso proprio ai malati più numerosi, quelli con più di 60 anni, sebbene fossero molto più in forma rispetto ai coetanei dei decenni precedenti». Le malattie oncoematologiche, in progressivo aumento in tutto il mondo, si originano da cellule anomale del midollo osseo, del sangue o dei linfonodi: linfomi non-Hodgkin, leucemia linfatica cronica e mieloma multiplo sono le più diffuse (le ultime due colpiscono prevalentemente soggetti di età superiore ai 65 anni). E’ per questo che, in tempi recenti, sono stati fatti molti studi per perfezionare le procedure di allo trapianto (o trapianto allogenico, quello che prevede di prelevare le cellule staminali sane dal midollo osseo o dal sangue di un donatore esterno e sostituirle a quelle del malato), riducendo gli effetti collaterali. Si è arrivati così al trapianto a ridotta intensità, che consiste in una ridotta somministrazione di farmaci – con o senza radioterapia -nelle prime fasi del trattamento. E, quindi, al trapianto non mieloablativo (o mini-allotrapianto), di fatto meno tossico. «In pratica – chiarisce Foà -, per eliminare le cellule cancerose residue e fare “piazza pulita” prima di trapiantare quelle sane, pur mantenendo una buona efficacia, si utilizzano chemioterapici meno tossici o dosi minori di radiazioni, più facili da sopportare per l’organismo di un 60-70enne».

LO STUDIO – Valutando i dati dei partecipanti alla sperimentazione, i ricercatori americani guidati da Mohamed Sorror hanno scoperto che non ci sono grosse differenze nella sopravvivenza legate all’età, ma che a fare la differenza per il successo delle cure è piuttosto l’aggressività della malattia, unita alle patologie concomitanti (comorbità) di cui spesso si soffre quando s’invecchia e che debilitano l’organismo, rendendo più difficile tollerare chemio e radioterapia. La sopravvivenza a cinque anni dei malati (indistintamente fra 60enni e 75enni) è risultata del 35 per cento e la sopravvivenza libera da progressione di malattia del 32 per cento: «Parliamo di un terzo dei pazienti – commenta Sorror -. Può sembrare poco, ma si tratta di persone che senza trapianto avrebbero avuto un’aspettativa di vita di pochi mesi. Inoltre, il tasso di sopravvivenza a cinque anni sale al 69 per cento se si calcolano solo le persone con un miglior stato di salute e un tumore poco aggressivo».

VALUTARE LO STATO GENERALE DEL PAZIENTE, NON SOLO L’ANAGRAFE - Ogni anno in Italia sono circa 250mila i nuovi casi di tumore e di questi il 60 per cento riguarda gli over 65. E i numeri, a fronte dell’invecchiamento della popolazione, sono destinati ad aumentare in futuro. A rendere particolarmente complessa la procedura di trapianto, soprattutto in chi è in là con gli anni, intervengono diversi ostacoli. Tra i più temibili ci sono le infezioni dovute all’immunosoppressione e alla leucopenia oltre alla temibile "graft versus host disease" (malattia del trapianto contro l’ospite), in pratica un’aggressione verso l’organismo del malato da parte del nuovo sistema immunitario che gli viene trapiantato. Ed è proprio riducendo questi rischi che si sono ottenuti molti progressi. «Bisogna chiarire che comunque anche il mini-allotrapianto è tutt’altro che una procedura semplice– aggiunge Foà -. Ma è molto importante poter offrire questa opportunità anche ai pazienti ultrassessantenni con neoplasie del sangue. Oggi il trapianto non deve più essere “l’ultima chance”, ma va valutato caso per caso all’interno dell’iter terapeutico di ciascun paziente: se è indicato, la sola età non dev’essere un deterrente».

UN «VECCHIO» FARMACO CHE ARRIVA DALL’EST – E’ in questo contesto che si rivela interessante la riscoperta di un “vecchio” farmaco che ha però un meccanismo d’azione in grado di rispondere ai bisogni di pazienti anziani e fragili. Bendamustina, in uso già da tempo nell’ex Germania dell’Est (dove fu messa a punto negli anni ’60 e rimase confinata fino a dopo la caduta del Muro di Berlino), è stata introdotta solo nell’ultimo decennio in Europa e negli Usa, dove è stata rivalorizzata. Sulla base di nuovi studi che ne hanno confermato efficacia clinica e buon profilo di sicurezza, uniti a un ottimo rapporto costo-beneficio, il farmaco ha di recente ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio anche dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) per i malati con leucemia linfatica cronica, linfomi non-Hodgkin indolenti e mieloma multiplo che non sono candidabili o non rispondono alle terapie standard. «Proprio per la sua capacità di ridurre notevolmente la tossicità senza intaccare l’attività antitumorale – conclude Sante Tura, professore di Ematologia presso l’Università di Bologna – questo medicinale può rappresentare un’arma in più a disposizione dell’ematologo, per rispondere alle esigenze terapeutiche non ancora soddisfatte dei soggetti che non risultano candidabili o non rispondono ai trattamenti tradizionali».

Vera Martinella (Fondazione Veronesi)
27 novembre 2011 (modifica il 28 novembre 2011)
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