PRESIDENZIALI USA 2012: Iowa, parte la corsa delle primarie I repubblicani cercano l'anti-Obama

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angelico
00domenica 6 novembre 2011 13:45
Obama for president, nonostante tutto Ogni quattro anni, l’Election Day negli Stati Uniti è un evento mondiale. E l’Italia lo attende e lo vive quasi come un evento di politica interna, perché la benevolenza dell’amministrazione Usa verso il governo italiano, quali che siano il presidente e il premier, è considerata un elemento essenziale per la credibilità e la stabilità del nostro esecutivo. Al punto da barare, per farla apparire anche là dove non c’è.

L’ultima settimana, ad esempio, buona parte della stampa italiana ha mistificato in modo palese due notizie americane. La prima quando Obama, presentatosi per ragioni elettorali all’annuale convention di un’organizzazione di americani di origine italiana tendenzialmente conservatrice, la Niaf, ha tessuto l’elogio dell’Italia e del contributo dell’immigrazione italiana alla Nazione americana: un discorso etnico e cerimoniale, trasformato in un messaggio politico.

La seconda quando una fonte Usa al Vertice del G20 a Cannes ha detto che cambiare governo in Italia, come in Grecia, non avrebbe di per sé risolto i problemi: non era un appello alla continuità, ma un modo per notare che i nuovi governi dovranno affrontare i problemi già esistenti e finora non risolti.

Fra un anno esatto, il 6 novembre 2012, sarà Election Day negli Stati Uniti: il giorno in cui gli americani andranno a votare per eleggere il presidente dell’Unione 2013/16, oltre che per rinnovare tutta la Camera, un terzo del Senato e i governatori di decine di Stati. Il presidente Barack Obama, un democratico, il primo nero alla Casa Bianca, punta a un secondo mandato; i suoi rivali repubblicani mirano a scalzarlo, ma prima devono battersi tra di loro per acquisire il diritto a sfidarlo. Per tutti, la strada è ancora lunga: un 2011 di schermaglie, di test di prova, di dibattiti di riscaldamento, che pure sono già serviti a diradare il campo dei concorrenti repubblicani, sarà azzerato quando, a gennaio, nello Iowa, si cominceranno a contare i voti della corsa alla nomination.

Se si votasse ora, dicono gli ultimi sondaggi pubblicati, il presidente Obama vincerebbe nonostante tutto: nonostante la crisi economica da cui non si esce e che potrebbe anzi peggiorare –ma questo è uno scenario catastrofico per l’inquilino della Casa Bianca -; i tiramolla con i repubblicani all’opposizione, che da un anno hanno la maggioranza alla Camera sul contenimento del debito e il rilancio della crescita; l’incapacità palpabile e percepita di incidere nei processi di pace in Medio Oriente e l’impreparazione all’insorgere della Primavera araba; il sapore di sconfitta che lasciano le guerre finite, ma non vinte, in Iraq e in Afghanistan (dove, tra l’altro, si combatte ancora).

Vediamo, infatti, a un anno dal voto, i dati sui possibili incroci tra Obama e i suoi sfidanti: Obama li batterebbe tutti, tranne Mitt Romney, con cui è praticamente un testa a testa. Ma Romney, ex governatore del Massachussetts, è quello che gli americani definiscono un loser, un perdente: farà molta fatica a ottenere la nomination e ne farebbe molta di più a conquistare la Casa Bianca. Nella sfida tra Obama e Romney, oggi vincerebbe l’ex governatore 44% a 43% – pure qui, il divario è statisticamente irrilevante -. Niente da fare per gli altri aspiranti presidenti: Obama contro Herman Cain, miliardario nero, finirebbe 46% a 41%, contro Richard Perry, ex governatore del Texas, 47% a 41%.

In corsa per la nomination repubblicana, ci sono Romney, Perry, Cain e, apparentemente con minori chance, pure Michele Bachmann, deputata del Minnesota, l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, che azzarda un come back dagli anni Novanta, l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, cattolico e italo-americano, l’ex ambasciatore degli Usa a Pechino Jon Huntsman, che è stato anche governatore dello Utah, e Ron Paul, padre del neo-senatore del Kentucky Rand Paul.

Prima degli appuntamenti che contano per raccogliere delegati alla Convention repubblicana di mezza estate – tra gennaio e febbraio 2012, la lista delle primarie si apre con Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina – potrebbe ancora aggiungersene qualcuno, ma qualcuno potrebbe anche andarsene.

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angelico
00giovedì 10 novembre 2011 15:10
Presidenziali Usa, Perry crolla in tv: non ricorda il ministero da tagliare
Doveva essere il dibattito della riscossa per Rick Perry, speranzoso di superare Herman Cain, azzoppato dallo scandalo sessuale. E invece, il duello tv di Rochester, in Michigan, tra i pretendenti alla nomination repubblicana, sarà ricordato per il crollo penoso del governatore del Texas, incappato in un'incresciosa gaffe che potrebbe segnare la fine della sua corsa presidenziale.

Nella seconda fase della serata, Perry ha dichiarato enfaticamente di essere pronto a tagliare ben tre ministeri, ove mai venisse eletto alla Casa Bianca. Peccato per lui che dopo aver enumerato il ministero del Commercio e della Scuola, Perry è stato colto da una incredibile amnesia. In preda al panico, ha cominciato a voltarsi, a cercare spunto dagli appunti. Ma niente. Questo terzo ministero, non gli veniva proprio in mente.

I suoi rivali, impietosi, hanno cercato di suggerirgli qualcosa. Ma lui, in evidente difficoltà, ha continuato a farfugliare. Infine, dopo interminabili 53 secondi, la resa: "Mi dispiace, non ce la faccio...", ha concluso. Poi, molti minuti dopo, una volta riconquistata la parola, ha cercato inutilmente di riprendersi: "Era il dipartimento dell'Energia che stavo cercando di ricordarmi". Ma il danno era già fatto. Per gli americani, attentissimi a questi dettagli, un 'comandante in capo' non può dimenticarsi una lista composta solo da tre parole

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angelico
00martedì 15 novembre 2011 19:27
Usa, la gaffe di Cain: 11 secondi di silenzio sulla Libia
Nuovo scivolone per Herman Cain, in lizza per la candidatura repubblicana per le presidenziali del 2012: dopo lo scandalo di molestie sessuali, l'ex patron dell'impero delle pizze surgelate è caduto in totale confusione su una semplice domanda di politica estera. Interrogato sul modo con il quale il presidente Barack Obama ha gestito la crisi in Libia, Cain si è appoggiato allo schienale della sedia, ha alzato lo sguardo al cielo, ha chiuso gli occhi e ha mormorato: "ok, Libia", poi ci sono stati undici secondi di silenzio. E quasi balbettando ha aggiunto: "Il presidente Obama ha sostenuto la rivolta, corretto? Il presidente Obama si è schierato a favore della rimozione di Gheddafi....giusto per essere sicuri che stiamo parlando della stessa cosa prima di dire se sono d'accordo o meno". Subito dopo ha iniziato a spiegare di non essere d'accordo con le decisioni della Casa Bianca "per i seguenti motivi", tranne poi interrompersi senza riuscire a finire la frase, ammettendo che "queste sono cose differenti". La figuraccia è stata già ribatezzata "il momento oops" di Cain, dopo che l'altro aspirante alla nomination repubblicana, il governatore del Texas Rick Perry, non era stato in grado di citare tutti i ministeri che voleva tagliare, pronunciando un imbarazzante "Ooops"


video.repubblica.it/mondo/usa-la-gaffe-di-cain-11-secondi-di-silenzio-sulla-libia/808...
angelico
00venerdì 18 novembre 2011 13:52
Usa, nella heartland americana
dove le donne non possono abortire Viaggio negli stati centrali dell'America, dove la campagna elettorale si gioca ancora tra pro-life e pro-choice. Dove Barack Obama è "semplicemente l'anticristo" e dove non è possibile praticare interruzioni di gravidanza. E chi lo ha fatto, come il medico George Tiller, ha pagato con la vitaWichita, Kansas, è una distesa senza fine di highways e case basse e tutte uguali. Il centro, vuoto e spettrale, ha due caffè e la stazione dei bus. Dominano, ovunque, chiese, di qualsiasi fede e confessione – battiste, episcopali, metodiste, cattoliche, evangeliche. Cartelli – con scritte come “Cristo è salvezza” e “Dio è tra noi” – accompagnano gli automobilisti fino alle soglie della città, dove inizia una pianura piatta e infinita dove non c’è nulla.

A Wichita Jennifer McCoy, ex-marine in Kuwait, aspetta il suo dodicesimo figlio. Nascerà in aprile. Jennifer vive in una casa povera. Il marito, camionista, è spesso lontano. Lei passa il tempo leggendo la Bibbia e girando le poche cliniche abortiste del Midwest. Chiede un test di gravidanza, entra in clinica e cerca di convincere le ragazze nella sala d’aspetto a non abortire. Anni fa è finita in galera per 24 mesi, dopo aver picchettato con eccessiva violenza una clinica. Dice che la sua è una missione, nata dopo essere stata costretta ad abortire. Aveva 16 anni, era stata stuprata dal suo professore.

E’ a Wichita che ha sede Operation Rescue, il gruppo di Troy Newman che in dieci anni è diventato la più potente organizzazione antiabortista d’America. I tempi dei picchettaggi fuori delle cliniche, ci dice Newman, “sono finiti”. Oggi la sua organizzazione porta le cliniche in tribunale, le denuncia per infrazioni minime, come il mancato rispetto del riciclaggio dei rifiuti. “Siamo riusciti a farne chiudere decine”, racconta. Newman offre un dato nazionale che va al di là dell’attività del suo stesso gruppo e spiega il trionfo degli antiabortisti d’America: “Vent’anni fa c’erano 2200 cliniche abortiste. Oggi sono 670”. Newman anticipa anche la sua prossima iniziativa: “un sito, con nomi, cognomi, foto, indirizzi dei medici abortisti d’America. Vergogna. Vergogna, è quello che devono provare”.

A Wichita vive anche Mark Geitzen, il presidente della “Kansas Coalition for Life”. Sua è l’idea di piazzare ogni giorno centinaia di croci davanti alla clinica di George Tiller, il medico ammazzato da un attivista anti-aborto nel 2009. Oggi Geitzen, che proclama di aver salvato 395 bambini, prepara la sua prossima, clamorosa iniziativa. Si chiama Heartbeat Legislation, dovrebbe proibire l’aborto non appena è avvertibile il battito del cuore del feto. Geitzen dice di avere l’appoggio del governatore repubblicano del Kansas, Sam Brownback, che nei mesi scorsi ha fatto passare una legge restrittiva del diritto all’interruzione di gravidanza. “Questo – conclude Geitzen – è il momento migliore per la nostra battaglia”.

L’aborto può non arrivare sulle prime pagine dei giornali nazionali, ma per questa gente, per milioni di persone che vivono nelle pianure e nelle città dello heartland d’America, l’aborto è davvero la questione dirimente che spinge a scegliere un candidato. Tutti gli sfidanti repubblicani alla presidenza hanno fatto sapere di essere saldamente pro-life. Anche chi, come Mitt Romney, era un tempo pro-choice, ha fatto rapidamente marcia indietro e proclama la sua fede anti-abortista. “Ma noi non gli crediamo, è un flip-flopper, un voltagabbana”, dice Troy Newman. Per Nicholas, 25 anni, disoccupato, altro attivista di Wichita, la questione dell’aborto sarà davvero fondamentale, il prossimo novembre. “Voterò il candidato cristiano che mi dà più garanzie – dice – voglio che i campi di concentramento, le cliniche abortiste, siano chiusi. Lì ci sono nazisti che praticano l’Olocausto. E, per me, Barack Obama è semplicemente l’Anticristo”.

“Gli attivisti anti-aborto sono stati molto bravi. E ora noi siamo sulla difensiva”, spiega Julie Burkhart, per anni collaboratrice del dottor Tiller. Il suo gruppo, Trust Women, ha raccolto un milione di dollari e sta per riaprire a Wichita una clinica che fornisca la possibilità di abortire. Dalla morte di Tiller, non ne esistono più, e le donne di Wichita devono viaggiare almeno 250 km per abortire. “La cosa più difficile – dice – è stata trovare un dottore disponibile. Dopo l’assassinio di Tiller, i medici hanno paura”. Il dottore è stato trovato, “ma non dico il suo nome, per ragioni di sicurezza”, continua la Burkhart, che però prevede “proteste, minacce, nuovi picchetti. Non ci lasceranno aprire la nostra clinica senza reagire”.

Ne sa qualcosa, di minacce e proteste, Mila Means, 58 anni, medico generico di Wichita. La Means è una signora mite e simpatica. Dopo la morte di Tiller, ha comprato le attrezzature del defunto medico e si è messa in testa di aprire una clinica dove praticare aborti. “Un po’ perché credo ai diritti delle donne. Un po’ perché era un servizio che mancava”. Da allora, la sua vita è cambiata. Alla Means è stato assegnato in permanenza un agente dell’FBI. Il compagno, armato di fucile, non la perde di vista un momento. La casa della donna è continuamente picchettata dai manifestanti. Le minacce di morte si moltiplicano. “Una donna mi ha scritto. Dice che la mia macchina, prima o poi, esploderà. Il giudice le ha dato ragione. Il Primo Emendamento le consente di esprimersi così”. Mila Means ha rinunciato intanto al suo progetto. “Meglio restare medico di famiglia. Non ne vale più la pena. Del resto, è un intero mondo che sta crollando”.

La Means ha ragione. Da nessuna parte forse come in questo angolo d’America risulta chiaro, lampante, quanto la rivoluzione conservatrice abbia cambiato il volto del Paese negli ultimi 30 anni. E abbia, in fondo, vinto. In cinque Stati – Missouri, North Dakota, South Dakota, Mississippi, Montana – esiste ormai una sola clinica capace di praticare aborti. “E stiamo combattendo per chiudere anche queste, e creare la prima zona abortion-free d’America”, spiega, raggiante, Troy Newman. La sua organizzazione, intanto, guarda lontano. In Maryland, per esempio, la prossima frontiera, dove c’è da chiudere la clinica del dottor Romeo Ferrer. E iniziare la battaglia per la conquista della East Coast.


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angelico
00martedì 27 dicembre 2011 21:08
Il candidato repubblicano in testa ai sondaggi per le primarie avrebbe chiesto lo scioglimento del matrimonio con la moglie malata di tumore, al contrario della tesi finora sostenuta per la quale era stata la donna a volere la separazione
Newt Gringrich assieme alla sua seconda moglie (reuters)
WASHINGTON - La Cnn inchioda Newt Gingrich. Fu lui a chiedere il divorzio alla sua prima moglie, nel 1980, il giorno dopo che la donna subì un'operazione di tumore. E non il contrario, come l'ex Speaker ha sempre detto sinora.

La rete tv 'all news' sul suo sito pubblica tutti i documenti giudiziari ufficiali che provano come in tutti questi anni il candidato repubblicano, oggi in testa ai sondaggi, abbia mentito su una vicenda personale piuttosto scabrosa.

Una mancanza grave, che potrebbe costargli cara, tenuto conto che per andare avanti nella lunga sfida per la Casa Bianca non si possono certo avere scheletri nell'armadio, tantomeno sulla vita privata che viene passata al setaccio in ogni suo dettaglio.

Sinora la tesi sostenuta dal suo staff era quella esposta da una sua figlia, Jackie, che all'epoca dei fatti aveva 13 anni.
"Nel 1980, quando i miei genitori divorziarono formalmente - scrisse la figlia in passato - in realtà erano già separati da tempo. E fu mia madre a chiedere il divorzio". Nelle carte pubblicate dalla Cnn si legge invece che fu la moglie a chiedere al giudice di respingere la richiesta avanzata dal marito, spiegando che avrebbe preferito trovare un accordo per il bene delle due figlie all'epoca minori.

Secondo il portavoce del candidato presidenziale, R.C. Hammer, è vero che la domanda formale venne presentata da Gingrich, tuttavia insiste sul fatto che è stata la donna ad aver chiesto il divorzio per prima. Al momento, la figlia Jackie, ha rifiutato di essere intervistata dalla rete tv. Un suo amico ha detto alla Cnn di essere preoccupata e di non voler danneggiare l'immagine dei suoi figli e dei suoi nipoti.
(26 dicembre 2011)

www.repubblica.it/esteri/2011/12/26/news/la_cnn_inchioda_gingrich_ment_sul_suo_primo_divorzio-2...
angelico
00venerdì 30 dicembre 2011 14:43
Al via il lungo cammino per trovare lo sfidante del presidente nelle elezioni di novembre: 1774 assemblee di cittadini sceglieranno chi dovrà riportare i repubblicani alla Casa Bianca. Favorito al momento Mitt Romney, ma nessuno per ora sembra avere i numeri per superare il presidente
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
Mitt Romney parla agli elettori a Mason City, Iowa, in piedi su una sedia (afp)
La selezione del leader più potente del mondo inizia come un'assemblea di condominio. Increduli, ammirati o scettici, stupefatti o sprezzanti, i cittadini del resto del mondo assisteranno in diretta il 3 gennaio al ripetersi di questo spettacolo: il "caucus" dell'Iowa darà il via al lungo cammino della nomination presidenziale. Quest'anno la scelta riguarda solo il partito repubblicano, visto che in campo democratico si ricandida il presidente uscente, Barack Obama. Ma guai a sottovalutare quel "fischio d'inizio partita" fra quattro giorni.

La destra può conquistare la Casa Bianca a novembre. Con questi numeri di disoccupazione, nessun presidente è stato rieletto dal dopoguerra a oggi. Un mese fa Obama sembrava spacciato; solo di recente qualche fremito di miglioramento lo ha rilanciato: un po' per merito dell'economia americana in leggera ripresa, un po' per l'"effetto indignati" che ha riportato l'attenzione sulle ingiustizie sociali (tema che aiuta la sinistra), un po' per la mediocrità dei candidati repubblicani, nessuno dei quali supera il presidente nei sondaggi. Resta però che nel gennaio 2013 un repubblicano potrebbe insediarsi nello Studio Ovale. Ed è stupefacente - visto con gli occhi del resto del mondo - che questo signore (o signora), debba le sue chance anche al "caucus" dello Iowa. Che non è neppure una primaria vera.

Somiglia a un meeting di caseggiato o a una festa di quartiere. Votano in media centomila persone, dopo aver dibattuto vivacemente
meriti e svantaggi dei vari candidati in 1.774 assemblee di vicinato.
Con questo happening che interrompe il rigidissimo inverno dello Iowa, il micro-laboratorio di democrazia diretta in stile ateniese s'innesta in una campagna combattuta a colpi di centinaia di milioni di dollari, con spot tv che si contendono l'attenzione del nuovo esercito di elettori attratti o manipolati attraverso YouTube, Facebook, Twitter. L'antico costume della partecipazione di base s'intreccia con lo scatenamento di arsenali tecnologici post-moderni. Il percorso prosegue a gennaio con tappe nel New Hampshire e South Carolina, solo poche manciate di delegati in vista della convention repubblicana, ma tanti test utili per far fuori i candidati più deboli, e focalizzare i pronostici sul grande scontro del 6 marzo, il Supermartedì dove grandi Stati mettono in palio il bottino più ricco di delegati.

Il meccanismo delle primarie ha un rovescio della medaglia, ben visibile in questa campagna: esaspera la polarizzazione. Tendono a mobilitarsi per le primarie gli elettori più motivati e impegnati: spesso sono anche i più radicali o addirittura fanatici. A destra il Tea Party (movimento anti-tasse e anti-Stato) sarà sovra-rappresentato rispetto al suo peso effettivo nell'opinione pubblica. Lo saranno anche i fondamentalisti cristiani (soprattutto evangelici) con le loro posizioni estreme sull'aborto. Questo spiega le contorsioni di Mitt Romney, forse il più "eleggibile" dei repubblicani in una sfida finale contro Obama, perché per sua indole e storia è un moderato. Romney si porta dietro bagagli pesanti per l'elettorato dell'ultradestra: da governatore del Massachusetts adottò posizioni progressiste sull'aborto; approvò una riforma sanitaria pressoché identica a quella di Obama. Perciò fino a ieri la corsa virtuale tra i repubblicani ha avuto un andamento surreale: di volta in volta nei sondaggi saliva "chiunque non fosse Romney". Michele Bachmann, Rick Perry, Herman Cain, Newt Gingrich, ciascuno ha avuto la sua fiammata di popolarità e la sua settimana (o due) di gloria.

Ognuno di loro ha incarnato per un attimo fuggente il sogno della destra fondamentalista e della Fox News di Rupert Murdoch, di portare alla Casa Bianca non un anti-Obama qualsiasi ma un puro e duro, "uno dei nostri", un ayatollah del liberismo deciso a smantellare il Welfare State già ai minimi termini. L'ultimo degli ex-favoriti, Gingrich, sta perdendo colpi in queste ore. È un po' difficile per un vecchio politicante come lui cavalcare la rabbia populista anti-Washington. Ancora più difficile per Gingrich è presentarsi come l'anti-statalista, visto che era a libro paga da lobbyista per il colosso pubblico del credito agevolato, Freddie Mac, corresponsabile del disastro dei mutui subprime.
Il bello della polarizzazione, però, è che la campagna elettorale americana offrirà una chiara scelta fra destra e sinistra. Una gran differenza rispetto all'Europa, dove il linguaggio dei politici è spesso una melassa indistinta, un'ammucchiata al centro. Qui in America non c'è confusione possibile. Perfino il moderato Romney, quando lo si interroga su quale sia la più grande minaccia per il suo paese, non ha esitazioni: "È lo Stato, una presenza intrusiva, soffocante". Sarà che gli elettori hanno la memoria corta, non ricordano quanto l'iperliberismo di George Bush contribuì ad assecondare il disastro sistemico della finanza, oltre al debito pubblico esploso con due guerre. Non importa, la destra rivuole quella ricetta reaganiana che a suo tempo Bush padre definì "economia vudu": meno tasse ai ricchi e alle multinazionali perché così la loro opulenza "sgocciola verso il basso" ("trickle down").

Sembra una follia che questa destra voglia buttar via perfino la legge Sarbanes-Oxley che Bush jr fu costretto a varare dopo il crac della Enron, un fragile argine contro frodi di bilancio e altre maxitruffe finanziarie. Romney e gli altri tuttavia intercettano un umore profondo: nell'ultimo sondaggio Gallup il 64 per cento degli americani dice di temere il Big Government, lo spettro di uno Stato invadente e opprimente, costoso e inefficace. Sarà schizofrenia, ma una percentuale identica dell'opinione pubblica si riconosce negli slogan di Occupy Wall Street contro l'ingordigia distruttiva dell'"un per cento", un tema che Obama abbraccia con determinazione. La paura dello statalismo e l'indignazione per le diseguaglianze estreme si ricongiungono in un fenomeno trasversale e globale: la ripulsa verso caste privilegiate e oligarchie di ogni genere.

Non è un caso se le speranze di Obama non sono tramontate: il record di sfiducia dei cittadini lo si registra non verso il presidente bensì contro il Congresso, dove la destra controlla la Camera. E se Obama accentuerà la sua battaglia per aumentare le tasse sui ricchi, un'altra vulnerabilità di Romney diventerà più visibile: l'ex finanziere-avvoltoio del gruppo Bain (specializzato nell'acquistare aziende in crisi, smembrarle, licenziare e rivendere con profitto) ha rifiutato finora di pubblicare la propria dichiarazione dei redditi, evidentemente un po' troppo opulenta.
(30 dicembre 2011)

www.repubblica.it/esteri/2011/12/30/news/primarie-27386084/
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