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I costi della Pubblica Amministrazione : Ecco quanto guadagnano i dipendenti di Regioni, Comuni e Province

Ultimo Aggiornamento: 12/03/2023 17:59
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Il conduttore critica la posizione del Vaticano, durante lo spettacolo per gli alluvionati di Genova. Dello stesso parere il ministro dell'ambiente Clini. I due raccolgono gli applausi del pubblico“La Chiesa è confusa. È incredibile, è perfino vietato chiedere che il Vaticano paghi l’Ici. È l’annullamento della democrazia. In questi tempi bisognerebbe cacciare i mercanti dal tempio, invece stanno facendo in modo che se lo comprino”. Pippo Baudo nei panni di Savonarola. Parla con toni pacati, ma usa parole nette. Del resto chi l’avrebbe mai detto: il Pippo più famoso d’Italia destinatario di un anatema. Sì, il protagonista della televisione degli ultimi decenni, moderato per definizione, cattolico dichiarato. Ma con lui nel mirino dell’Avvenire, il quotidiano vicino alla Conferenza Episcopale, è finito anche Corrado Clini, ministro della Repubblica. Non tocchi di fioretto, ma colpi di mortaio.

Il motivo? Hanno chiesto che la Chiesa paghi l’Ici. Siamo a Genova, martedì scorso. Gino Paoli organizza uno spettacolo per le vittime dell’alluvione. E ci sono anche loro, l’inedita coppia Baudo-Clini. Pippo dal palco lancia un appello contro l’esenzione dall’Ici degli immobili della Chiesa (mica tutti, solo quelli usati per finalità anche in parte commerciali). Le parole sono pacate, il messaggio, però, chiaro: “Il Cardinale (Bagnasco, ndr) è qui vicino … e magari qualcuno glielo va a dire. Hanno alberghi, hanno cose. L’Ici la devono pagare, perché tutti gli enti che producono frutto e quindi reddito devono pagare la tassa. Dobbiamo convincere la Chiesa a dare”. Ovazione del pubblico. Poi Pippo passa il microfono a Clini che non si tira indietro: “Sono molto d’accordo, spero che su questo non ci siano opposizioni. Anche perché è un segnale di solidarietà vera, di superamento di privilegi non hanno più posto, soprattutto oggi. Per questo dico che è giusto che anche la Chiesa paghi l’Ici”. Altra ovazione.

Ma qualcuno non ha gradito. E ieri ecco il commento di Marco Tarquinio, direttore dell’Avvenire. Il titolo lascia già poco spazio ai dubbi: “Triste e deformante duetto”. È solo l’inizio: “Ho visto un ammiccante Baudo e un imperturbabile Clini. Le falsità messe in fila dal noto presentatore culminano nella secca adesione alle stesse falsità da parte del neo-ministro. Incresciosa la disinformata e grossolana polemica di Baudo, sbalorditiva l’altrettanto disinformata e remissiva adesione di Clini. E il ruolo da spregiudicato mattatore giocato dall’uomo di televisione, non assolve colui che rappresentava il Governo”. Un’invettiva vera e propria: “In una serata dedicata a celebrare la solidarietà, c’è chi non ha trovato di meglio che attaccare con argomenti pretestuosi e mistificatori chi più di ogni altro nel nostro Paese promuove e garantisce solidarietà, prossimità e accoglienza: la Chiesa”. Dunque, prosegue Tarquinio, “non spetta a me dire se questi signori meritino querele, certo non meritano stima per quello che hanno messo in scena: servire la Repubblica e stare su un palco da “conduttore” dovrebbero, sia pure in modo diverso, imporre a tutti senso di responsabilità e rispetto della verità”.

Baudo, che non è mai passato per un estremista, sfiora la scomunica. Ma ieri non si è tirato indietro: “Sono io che dovrei querelare. Sono offeso, ma perdono perché è Natale e poi il direttore dell’Avvenire non ha capito quello che ha scritto. C’è molta improvvisazione, un carattere oltranzista. Ho fatto un intervento civilissimo come cittadino cattolico che dà l’ 8 per mille alla Chiesa nella dichiarazione dei redditi. Ma il problema Ici esiste, tanto che il cardinale Angelo Bagnasco, che è una persona civile, ha detto “parliamone”. A questo Governo è stato consegnato uno Stato in condizioni comatose. Dobbiamo contribuire tutti, per primi quelli come me che stanno bene, magari con una patrimoniale. Ma tocca anche al Vaticano, lo dice il Vangelo, “date a Cesare quello che è di Cesare”. Basta, la Chiesa deve contribuire, deve pensare meno ai crocifissi d’oro, ai ricchi paramenti, e dedicarsi agli ultimi”. Baudo fa una pausa. Ci pensa. Poi, sì, decide che bisogna dire ancora qualcosa: “Questa Chiesa è confusa, non ha più quelle grandi intelligenze che le hanno permesso in passato di superare le crisi più devastanti, come quella della pedofilia. E poi … ha perso il suo obiettivo principale, che è l’uomo che soffre”. Pippo Baudo si ferma, quasi avesse concluso. Ma questa storia proprio non gli va giù: “Sono finiti i regimi dittatoriali, oggi esiste la discussione, i pareri discordi si mettono a confronto. Invece c’è chi sostiene un principio … impressionante: tu non puoi nemmeno parlarne. Gli unici depositari del verbo siamo noi”.

da Il Fatto Quotidiano del 24 dicembre 2011

www.ilfattoquotidiano.it/2011/12/24/baudo-la-chiesa-confusa-deve-pagare-lici...
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I partiti? Spendono 1 euro e ne incassano 4,5

di Mariolina Sesto
Cronologia articolo6 aprile 2012
In questo articolo


Un fiume di denaro che va via via ingrossandosi proprio a partire dal 1994, l'anno successivo al referendum che aveva decretato lo stop ai finanziamenti pubblici ai partiti. Si parte con quasi 47 milioni di rimborsi elettorali alle politiche che incoronano Silvio Berlusconi premier per la prima volta e si approda ai 503 milioni dell'ultima tornata di politiche, quella del 2008.

I volumi sono aumentati di dieci volte e, contemporaneamente si è allargata la forbice fra l'ammontare delle spese elettorali sostenute dai partiti (che sono aumentate ma non allo stesso ritmo dei rimborsi) e quello dei fondi che dovrebbero coprire quelle spese. Alle politiche 2008, ad esempio, mediamente per ogni euro speso, i partiti ne hanno incassati quattro e mezzo. Si va dal Pdl, che avendo speso la cospicua somma di 68 milioni di euro ne ha incassato tre volte di più (oltre 206 milioni) al Pd, che avendo più parsimoniosamente speso per la campagna elettorale 18 milioni di euro e avendone incassati 180, ha messo a frutto una plusvalenza del 900 per cento. Ancora meglio è andata alla Lega che ha incassato oltre 11 volte più di quanto speso.

GRAFICI
Le spese e i rimborsi elettorali

Il boom dei rimborsi
Ma come hanno fatto i contributi pubblici a moltiplicarsi in misura così eclatante? È stato il Parlamento stesso ad autorizzare gli aumenti. Se, infatti, nel '93 il monte contributi veniva calcolato moltiplicando 1.600 lire per il numero degli abitanti della Repubblica, la legge del '99 ha più che raddoppiato la misura del contributo portandolo a 4mila lire, poi aumentato ancora a 5 euro. A poco è valso limitare il fattore di moltiplicazione ai cittadini iscritti alle liste elettorali per le elezioni della Camera (guarda caso l'elettorato più numeroso): il tesoro da spartire è cresciuto in modo esponenziale. Beffa nella beffa: nel caso di erogazione ritardata delle somme dovute ai partiti, lo Stato paga loro persino gli interessi legali maturati.

Infine, sull'incremento dei rimborsi ha pesato la leggina che ha garantito il pagamento dei contributi anche in caso di interruzione anticipata della legislatura. Eventualità verificatasi nel 2008, con la caduta del governo Prodi che si è tramutata in un vero e proprio affare per i partiti con il raddoppio dei fondi trasferiti nelle casse dei tesorieri. Una norma talmente esosa da essere sopravvissuta per pochissimo tempo: è stata già cassata.

Il «taglietto» recente
Di fronte a queste cifre il «taglio» che la politica si è autoinflitta negli ultimissimi anni appare del tutto ridicolo. Le decurtazioni dei fondi attuate con varie manovre e in più tempi hanno portato negli ultimi quattro anni a un taglio del 30 per cento. Taglio che i partiti si sono affrettati a definire più che sufficiente tanto che i Ddl di riforma presentati alle Camere negli ultimi mesi (dopo il caso Lusi) non contemplano alcuna ulteriore incisione nel tesoretto dei rimborsi. Né la proposta del Pd, né quella dell'Udc, molto simili nel delineare regole stringenti di trasparenza sull'uso dei fondi pubblici non prendono in alcun modo in considerazione l'idea di una cura dimagrante per i finanziamenti statali. E neppure il Pdl, che fra l'altro non versa in condizioni finanziarie molto favorevoli, ha in mente di rinunciare a parte dei rimborsi. Ieri il suo segretario ha annunciato la prossima presentazione di un Ddl che insieme a controlli più rigidi suggerisce un finanziamento privato più robusto, come si suol dire «all'americana». Ma nel partito di Berlusconi in molti hanno da obiettare su questo modello: in un momento di crisi economica e insieme di così grande impopolarità dei partiti, è la critica più ricorrente, quale cittadino offrirà di buon grado e di sua spontanea volontà i suoi soldi alle forze politiche?

I dubbi dei partiti
Sia il Pd che l'Udc, invece, sostengono apertamente che il finanziamento pubblico è necessario e che i tagli recenti sono già stati abbastanza dolorosi. Nella stessa lettera che ieri Pier Luigi Bersani ha inviato a Casini e Alfano non si parla di alcuna riduzione dei rimborsi ma solo di più stringenti controlli sui bilanci e sull'uso dei fondi pubblici con la certificazione obbligatoria dei documenti contabili e le verifiche della Corte dei conti.

Solo il partito di Fini (oltre a Di Pietro che ha presentato un referendum sull'abolizione dei rimborsi) si avventura nella proposta di decurtazione dei contributi dello Stato chiedendone il dimezzamento. Chissà se Fli riuscirà a convincere i suoi alleati. Certo è che in Parlamento la paura di essere spazzati via alle prossime elezioni comincia a superare quella di perdere una parte dei contributi pubblici. Le parole del Pd Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds e difensore a oltranza del finanziamento pubblico dei partiti, ne sono una efficace testimonianza: «L'ho detto a Gianfranco Fini, con Massimo D'Alema ne parlo tutti i giorni, gli faccio una testa così – confida all'Espresso –. Lo capite o no che tra sei mesi l'indignazione dei cittadini metterà i partiti sullo stesso piano. E ci spedirà a casa tutti. Tra sei mesi i partiti non ci saranno più? Finiti!». Altro che rimborsi elettorali.

www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-04-06/partiti-spendono-euro-incassano-100809.shtml?uuid=...

www.repubblica.it/economia/2012/04/06/news/rimborsi_elettorali-32864526/?ref...



[Modificato da angelico 07/04/2012 00:20]
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Bankitalia, 681 mila euro nella busta paga del Governatore

31/05/2012 15.56.13
(Teleborsa) - Roma, 31 mag - Ad essere venali, a Mario Draghi sarebbe convenuto continuare a guidare la Banca d'Italia piuttosto che volare a Francoforte al timone della Banca Centrale Europea. Lì, infatti, guadagna poco meno della metà.

Secondo quanto emerso dal bilancio di Bankitalia illustrato oggi in occasione dell'Assemblea, il Governatore di Palazzo Koch, Ignazio Visco, percepisce un compenso di 681 mila euro, a fronte dei circa 370 mila di Draghi all'Eurotower.

In realtà, gli emolumenti sarebbero di 757.714 euro, ma la somma è stata decurtata del 10% a seguito delle norme sul blocco e taglio degli stipendi del pubblico impiego varate nell'estate 2010, scendendo così a quota 681 mila euro.

Non se la passa male nemmeno il Direttore Generale, Fabrizio Saccomanni, con 533 mila euro al netto della decurtazione. Gli stipendi complessivi dei tredici consiglieri superiori sono di 371 mila euro, mentre al Collegio sindacale vanno 137 mila euro.


finanza.repubblica.it/News_Dettaglio.aspx?code=663&dt=2012-05-31...
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Il più costoso è il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali che, in conto spese, ogni anno mette circa 100 miliardi di euro. In totale, i nostri dicasteri, spendono circa 283 miliardi e la metà serve solo per farli funzionare con una spesa giornaliera di un miliardo. Queste le cifre contenute nel dossier del servizio bilancio dello Senato. Calcoli che servono per garantire il successo della spending review che dovrebbe assicurare risparmi fino a 5 miliardi (cifra ritoccata al rialzo dopo il dramma del terremoto in Emilia). Un correzione che domani dovrebbe essere approvata durante il comitato interministeriale guidato da Mario Monti. Raggiungere una tale riduzione della spesa tra giugno e dicembre 2012, equivale ad avere 8,5 miliardi di risparmi strutturali entro il 2013. Come? Tre miliardi arriveranno dai tagli della spesa sui quali sta ragionando Enrico Bondi. Il resto arriverà dalle varie sforbiciate a carico dei ministeri.

Ed è proprio dal dossierone di palazzo Madama che saltano fuori cifre interessanti e curiosità. Come il miliardo speso ogni anno per le confessioni religiose o gli 848 milioni di euro pagati dal ministero di Grazia e Giustizia per coprire le spese delle intercettazioni. In totale il conto certificato è di 283 miliardi. Di questi 108 vanno per il semplice funzionamento della macchina.

Messi insieme i dati, il servizio bilancio del Senato si è concentrato nel segnalare le spese più consistenti. Dal focus sul ministero dell’Economia emergono, in particolare, i trafserimenti di denaro a favore delle società pubbliche. Le più rilevanti? Quasi due miliardi a Ferrovie, Anas e Enav, 4.3 miliardi all’Inps. Decisamente alto il contributo (1,4 miliardi) per rilanciare la lotta all’evasione fiscale.

Il conto più salato spetta, poi, al ministero del Lavoto. Cento miliardi , di cui 98 versati per interventi di politiche sociali, mentre 300 milioni vengono spesi per il funzionamento degli uffici territoriali.

Ed eccoci, quindi, ai conti spesi per la Giustizia. Qui il budget, in fondo, è limitato: circa 7 miliardi. Di questi la metà viene spesa per far funzionare i tribunali italiani. Mentre quasi un miliardo va in copertura per i costi delle intercettazioni.

Tagliare è possibile sul fronte del ministero degli Esteri. Qui il budget è di 1,7 miliardi. Di questi ben 579 milioni vengono spesi per supportare le sedi estere della Farnesina. I conti del Senato, oltre che sprechi, segnalano sbilanciamenti di spesa. E’ l’esempio dell’Istruzione che, su un tesoretto annuo di 44 miliardi, ne spende 40 per l’istruzione scolastica e appena 444 milioni per le università. Appaiono, invece, troppi gli 84 milioni di euro dati agli atenei privati.

Undici miliardi vale, invece, il Viminale. Il ministero dell’Interno spende 486 milioni per fa far funzionare le Prefetture, 84 per i collaboratori di giustizia e 200 per i servizi accoglienza stranieri. Il ministero delle Infrastrutture pesa sul bilancio del Paese per 7,5 miliardi. La Difesa per 19, 17 dei quali consumati per il solo funzionamento del ministero.

www.ilfattoquotidiano.it/2012/06/11/i-ministeri-costano-283-miliardi-la-meta-solo-per-farli-funzionare...
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Blitz notturno alla Regione, votato a sorpresa un emendamento che riporta di fatto la paga al livello previsto prima degli ultimi tagli. Idv: "Vanificata la volontà popolare, che ha chiesto un taglio netto a privilegi e costi della politica regionale"
Lo leggo dopo
Il palazzo del consiglio regionale il Sardegna
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ARTICOLO
A rischio i soldi ai terremotati
"Governo emani decreto"
CAGLIARI - A sorpresa, grazie ad un emendamento votato nella notte, i consiglieri regionali della Sardegna riavranno le indennità di carica che erano state bocciate da un referendum "anticasta" 1. Nonostante la pronuncia popolare, la situazione relativa all'ammontare delle indennità per gli 80 consiglieri resta sostanzialmente invariata rispetto agli importi aggiornati al 2011.

Per ripristinare quanto cancellato con il referendum del 6 maggio scorso, è bastato un emendamento alla legge sui contratti di collaborazione della pubblica amministrazione, approvata ieri notte, che conferma un centinaio di "precari". Sul punto si è consumata anche una spaccatura interna ai Riformatori, con alcuni consiglieri che, al momento della votazione, hanno abbandonato l'Aula.

Apparentemente sono apportati tagli alle varie voci - indennità di carica, diaria e contributo per i gruppi - compresi fra il 20 e il 30%, ma i parametri su cui sono applicati sono indennità e rimborsi spese in vigore al 31 dicembre 2003, successivi ad un aumento di stipendio dei parlamentari (cui è agganciato quello dei consiglieri regionali), entrato in vigore nell'autunno precedente. Vanificando de facto tutti gli aggiustamenti successivi a quella data.

L'emendamento passato ieri notte assegna ai consiglieri regionali le indennità di base attribuite nel 2003, pari a circa 9.263 euro. I tagli dichiarati, invece, riguardano solo l'indennità di carica riconosciuta a partire dai vicepresidenti di commissione fino alla presidenza del Consiglio regionale (-30%), la diaria (-20%) e i contributi ai gruppi (-20%). Ma la norma non tocca, per esempio, le spese di segreteria e cancelleria, quelle per i cosiddetti "portaborse", confermate a 3.352 euro.

L'emendamento è stato firmato dai questori dell'Assemblea Andrea Biancareddu (Udc), Giuseppe Cuccu (Pd), Nello Cappai (Udc) ed Eugenio Murgioni (Pdl). E non va giù all'Idv, che parla di occasione persa: "Con il solito blitz a tarda notte, il Consiglio ha ripristinato le indennità dei consiglieri vanificando l'esito del referendum dello scorso 6 maggio", afferma il vice segretario dell'Idv, Salvatore Lai. "La leggina approvata alla chetichella, che riduce minimamente gli stipendi dei consiglieri e i fondi per i gruppi, non rispetta la volontà degli elettori che hanno chiesto un netto taglio ai privilegi e ai costi della politica regionale: è l'ennesima occasione persa", dice ancora.

Per Efisio Arbau, leader del movimento La Base e promotore dei referendum "è la peggiore pagina della storia dell'autonomia". Il Consiglio regionale si piega al conflitto di interessi dei propri componenti. Si riprendono, infatti, le indennità pesanti nonostante i cittadini avessero detto che i soldi dovevano essere tagliati, non eliminano i consigli di amministrazione degli enti regionali e prorogando le poltrone dei loro amici politici provinciali", commenta.

(13 giugno 2012)

www.repubblica.it/politica/2012/06/13/news/sardegna_rispunta_indennit_consiglieri_bocciata_da_referendum-3...
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Nel bilancio 3,6 milioni per le integrazioni. Per i 901 dipendenti di Palazzo Madama ben 14 sindacati: da quello degli stenografi a quello dei coadiutori


Palazzo Madama sede del Senato (Benvegnù - Guaitoli)
ROMA - L'ex senatore Gustavo Selva l'ha bollata un giorno «indennità di Palazzo». Mai definizione è stata più azzeccata per descrivere il capitolo 1.6.4 del bilancio di palazzo Madama. Dove c'è scritto «Personale di altre amministrazioni ex enti che forniscono servizi in Senato», accanto a una cifra: 3 milioni 570 mila euro. Tanto la Camera alta ha stanziato nel 2011 per arrotondare le paghe di tutte quelle persone che non ne sono dipendenti, ma lavorano lì. Innanzitutto le forze di polizia. «Un numero che non sono mai riuscito a conoscere nei 14 anni in cui sono stato deputato e senatore», confessò lo stesso Selva a Libero qualche tempo fa, argomentando tuttavia che quella «indennità di palazzo» spettante a poliziotti e carabinieri in servizio, appunto, nei palazzi del potere «dovrebbe essere riconosciuta piuttosto a chi fa servizio di strada per combattere la criminalità».
La cifra è ovviamente diversa a seconda dei gradi di responsabilità. L'«indennità di Palazzo» concessa alle forze di polizia oscilla da un minimo di 200 euro lordi al mese per i piantoni a un massimo di 2.500 euro per i gradi apicali. Poi ci sono i pompieri: da 300 a 2 mila euro. Quindi i vigili urbani: da 150 a 500 euro. E i dipendenti dell'ufficio interno di Poste italiane: da 200 a 1.000 euro. E già il fatto che un lavoratore dipendente debba avere una retribuzione aggiuntiva da un'amministrazione diversa dalla sua per fare lo stesso lavoro che qualunque suo collega meno fortunato svolge altrove in condizioni certamente più disagiate, soltanto perché è nel cuore del potere, è abbastanza curioso. Ma che all'indennità abbiano diritto anche alcuni privati è addirittura sorprendente. Parliamo dei dipendenti dello sportello bancario interno gestito da Bnl del gruppo Bnp Paribas (da tempo immemore si è in attesa di una gara), ai quali toccano da 400 a 750 euro lordi al mese. Come pure di quelli dell'agenzia di viaggi di palazzo Madama, affidata alla Carlson Wagonlit, i quali più modestamente si devono accontentare di 300-400 euro mensili. Briciole. Che però non toccano, per esempio, ai dipendenti del ristorante finiti in cassa integrazione dopo l'aumento dei prezzi del menu che ha provocato il tracollo del fatturato.
Sia chiaro: di questo stato di cose non sono certo responsabili i lavoratori. Ma che l'«indennità di Palazzo» rappresenti una singolare anomalia è chiaro da tempo: almeno da quando, dopo un ordine del giorno voluto nel 2009 dall'ex leghista Piergiorgio Stiffoni, quella voce avrebbe subito in alcuni casi un taglio del 10%.

Del resto, chi si ostina a difendere quel piccolo privilegio va compreso. Il livello delle retribuzioni del Senato continua a essere tale da mortificare gli «esterni» che lavorano a palazzo Madama e dintorni. Lo scorso anno gli stipendi del personale, comprese indennità varie, hanno toccato 134 milioni e mezzo di euro. Ovvero, 149.300 euro in media per ciascuno dei 901 dipendenti. Quasi il quadruplo della retribuzione media di un dipendente della Camera dei comuni britannica. Ma chi ha l'ingrato compito istituzionale di fronteggiare le offensive sindacali al tavolo delle trattative qui non deve avere vita facile. Anche se è un sindacalista poco arrendevole, a giudicare da come ha reagito alla sua espulsione decretata dal Carroccio: si tratta di Rosi Mauro, vicepresidente del Senato nonché presidente del sindacato «padano». Di sigle sindacali, davanti, ne ha 14. Quattordici per 901 dipendenti. In media, se tutti quanti avessero una tessera in tasca, 64 iscritti a sigla. In media, appunto. Perché per 49 stenografi esiste un «sindacato tra gli stenografi parlamentari» e un'«associazione resocontisti stenografi parlamentari». C'è poi l'«associazione fra i funzionari», l'«associazione consiglieri parlamentari», il «sindacato quadri parlamentari» e il «sindacato coadiutori parlamentari». Senza parlare dell'«organizzazione sindacale autonoma-Senato», dell'«associazione tra gli assistenti parlamentari del Senato», del «sindacato dei dipendenti del Senato», dell'«associazione sindacale intercategoriale del Senato» e dell'«associazione dipendenti Senato». E per finire con Cgil, Cisl e Uil.
La ciliegina: nonostante queste paghe stellari e il nutrito gruppo di espertissimi consiglieri (117), il Senato ha comunque speso 2,3 milioni di «consulenze per il Consiglio di presidenza e i presidenti» (capitolo 1.6.2) e quasi due milioni di «Prestazioni professionali per l'amministrazione».

Sergio Rizzo
19 giugno 2012 | 8:15

www.corriere.it/cronache/12_giugno_19/rizzo-lavori-al-senato_9ef86c88-b9d1-11e1-88e3-74eab70f59...
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L'allarme della Corte conti: grandi opere, costi in crescita del 40% causa corruzione

con un'analisi di Roberto Turno
Cronologia articolo28 giugno 2012
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Argomenti: Salvatore Nottola | Corte dei Conti | Luigi Giampaolino




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ll fattore corruzione ha un impatto negativo diretto sulla spesa pubblica, facendo aumentare i costi per le grandi opere del 40 per cento. Su un altro fronte, quello della lotta all'evasione e della riscossione coattiva, lo Stato ha ultimamente «dispiegato uno sforzo straordinario e sono stati conseguiti risultati altrettanto straordinari, ma lo zoccolo duro é stato appena scalfito». Corruzione e lotta all'evasione poco efficace sono due dei molti campanelli d'allarme che il Procuratore generale presso la Corte dei Conti, Salvatore Nottola, ha fatto suonare questa mattina nel presentare la relazione della magistratura contabile sul Rendiconto generale dello Stato.

Danni indiretti e indiretti all'economia
L'interesse per il fenomeno corruttivo, sottolinea Nottola, «è dato dagli ingiusti costi che provoca all'economia». I costi sono «immediati o diretti, costituiti dall'incremento della spesa dell'intervento pubblico: c'è una lievitazione dei costi strisciante e una lievitazione straordinaria che colpisce i costi delle grandi opere, calcolata intorno al 40 per cento». Ma a preoccupare maggiormente Nottola è il danno indiretto, «forse più grave», inferto all'economia nazionale, «perché la corruzione allontana le imprese dagli investimenti: é stato calcolato che ogni punto di discesa nella classifica di percezione della corruzione (sembra che l'Italia attualmente sia al 69mo posto su 182) provoca la perdita del 16% degli investimenti dall'estero».

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Eliminare le zone grigie che avvolgono i conti pubblici
Pressione fiscale eccessiva
Quanto al risanamento dei conti pubblici, questo «é avvenuto a prezzo di molti sacrifici «a danno delle famiglie e delle imprese». Tagli e risparmi hanno effettivamente ridotto il disavanzo pubblico, «e il debito pubblico é tendenzialmente in discesa» - osserva Nottola – ma «questo é avvenuto a prezzo di pesanti sacrifici, soprattutto a danno delle classi medio-basse, e di un appesantimento proporzionale della pressione fiscale: in definitiva, di una sensibile compressione del reddito delle famiglie e della capacità di manovra delle imprese, che non può non influire negativamente sullo sviluppo».

Trasparenza sinonimo di democrazia
Il presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, nella sua relazione per la pronuncia del giudizio di parificazione del Rendiconto dello Stato relativo all'esercizio finanziario 2011, ha posto l'accento sulla necessità di garantire l'assoluta trasparenza dei bilanci pubblici. «Il tasso di democraticità di un Paese – ha sottolineato - si misura anche in relazione al grado di trasparenza dei conti, così che il Parlamento, le assemblee rappresentative e, in ultima analisi, i cittadini, siano posti in grado di conoscere l'operato degli esecutivi titolari della gestione delle risorse finanziarie».

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l governo, lo stesso che si appresta a sforbiciare la spesa pubblica con la spending review e che ha varato la riforma della previdenza, ha detto no all’inserimento di un tetto alle pensioni d’oro. Perché? Di pensioni a 5 stelle tra i banchi dell’esecutivo ce ne sono diverse, basta leggere le indennità di diversi ministri e sottosegretari. Un pacchetto di alti redditi che in parte aiutano a spiegare la reticenza con cui l’esecutivo ha affrontato finora il tema dei tetti agli assegni della previdenza pubblica. La lista, del resto, chiama in causa addirittura il super-commissario ai risparmi, Enrico Bondi. Ma spicca anche un sottosegretario, Gianfranco Polillo, il sospettato numero uno del rinvio della norma.

Non è ancora chiaro, infatti, come sarà il provvedimento che il Consiglio dei ministri è chiamato a varare la spending review (10 miliardi di tagli quest’anno, il doppio nel 2013, per disinnescare la bomba dell’aumento dell’Iva previsto da Berlusconi). E soprattutto non è chiaro se ci sarà o no un tetto massimo per le pensioni pagate dall’amministrazione pubblica che l’emendamento presentato dal deputato Pdl, Guido Crosetto, indicava in 6mila euro netti mensili. Quell’emendamento è stato ritirato dopo le insistenti “pressioni” da parte del governo e degli stessi colleghi di Crosetto. “Smuovi un campo troppo ampio” gli aveva detto in Commissione proprio Polillo. Il sottosegretario sa bene di cosa parla perché è titolare di una pensione di 9.541,13 euro netti al mese percepita dall’ottobre del 2006 dopo oltre 40 anni di servizio come funzionario della Camera. A pensar male, ovviamente, si dovrebbe ritenere che è la propria pensione a indurre a smussare un provvedimento tutt’altro che simbolico (consentirebbe un risparmio di 2,3 miliardi solo per il pubblico, di 15 estendendolo anche al privato). Ma questo presupporrebbe un’azione retroattiva del taglio che, a eccezione dei pensionati comuni (ai quali hanno bloccato l’adeguamento all’inflazione per gli assegni superiori ai 1.400 euro), come gli esodati, non si dà mai nella legislazione italiana. Forse si tratta invece di una mera rappresentanza di un interesse “di casta”.

Se però si volesse capire chi potrebbe effettivamente essere beneficiato dal mancato tetto, ecco il nome di Elsa Fornero. Il ministro del Lavoro che in pensione ancora non ci è andata ma che gode di una lunga carriera a cui aggiunge importanti consulenze e incarichi prestigiosi. Nel 2010 ha dichiarato un reddito di 402mila euro lordi annui, per cui non è difficile prevedere per lei una pensione al limite della soglia Crosetto. Ma quanti altri “cloni” di queste figure potrebbero essere salvati? Ancora altri esempi, magari proprio considerando l’estensione al privato: il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha dichiarato nel 2011 oltre 7 milioni di euro. Il suo collega allo Sviluppo Corrado Passera, oltre 3,5 milioni. Per non parlare di Piero Gnudi, con una dichiarazione dei redditi da 1,7 milioni. Legittimo attendersi che, quando andranno in pensione, saranno ben oltre il tetto.

Prof, generali e grand commis - Diamo ancora un’occhiata alle pensioni di chi è al governo. Il ministro Anna Maria Cancellieri dal novembre 2009 è titolare di una pensione di 6.688,70 euro netti al mese. È il frutto di una lunga carriera nell’amministrazione statale, con l’ingresso al ministero degli Interni nel 1972. Il ministro della Difesa, Ammiraglio Giampaolo Di Paola, percepisce 314.522,64 euro di “pensione provvisoria” pari a circa 20mila euro mensili. È pubblicata, inoltre, sul sito del governo quella del sottosegretario allo Sviluppo economico, Massimo Vari che percepisce 10.253,17 euro netti al mese, frutto di una lunga attività di magistrato fino a ricoprire la carica di vice-presidente emerito della Corte costituzionale. Vari è in attesa di un’altra indennità per gli anni trascorsi alla Corte dei conti europea. Così come è pubblicata la pensione di Andrea Riccardi, 81.154 euro lordo annui (circa 4mila euro al mese) frutto del lavoro di docente universitario. Impossibile da rintracciare nella dettagliatissima documentazione reddituale del presidente del Consiglio, invece, la pensione di cui è beneficiario dal novembre del 2003 pari a 3.330,11 euro netti mensili frutto dell’attività di docente universitario.

Poca cosa in confronto alle vere pensioni d’oro e poca cosa, soprattutto, rispetto al reddito superiore al milione di euro dichiarato da Mario Monti nel 2011. Vale la pena di considerare, però, che quella pensione che è comunque tre volte medici Asl, fino ai 134mila euro annui dei magistrati. Nella fascia di pensioni superiori ai 4mila euro lordi mensili ci sono 104.793 persone che si riducono all’aumento del tetto individuato (non ci sono dati per fasce superiori ai 4mila euro). I risparmi possono comunque essere molto alti. Basti pensare che l’incidenza degli stipendi dei dirigenti pubblici arriva spesso al 20% dei costi sostenuti con punte del 40% nella Sanità (o, per fare un esempio più piccolo, all’interno della Presidenza del Consiglio). Del resto, basta guardare la è di 22.307 euro netti al mese (avete letto bene, ventiduemila euro al mese); la seconda, integrativa, è di 10.465 euro netti mensili. Come se non bastasse ce n’è una terza, di “soli” 896,38 euro mensili frutto di una pensione “contributiva”. Il totale è di 33.668 euro netti mensili. Se fosse stabilito un tetto di 5 o 6mila euro, Geronzi dovrebbe rinunciare ad almeno 27mila euro. Si pagherebbero almeno 30 esodati. Un po’ meno se si ponesse a 10mila euro il tetto consentito per il cumulo degli assegni. Ma comunque un bel risparmio.

da Il Fatto Quotidiano dell’1 luglio 2012

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Finanziamento ai partiti, approvata la riforma: più trasparenza e fondi dimezzati

Cronologia articolo5 luglio 2012
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Argomenti: Partiti politici | Corte dei Conti | Consiglio di Stato | Onlus | Corte di Cassazione | Camera dei deputati | Senato




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Cambiano le regole per il finanziamento pubblico all'attività dei partiti politici, che in futuro avranno meno soldi - destinati in parte alle zone terremotate - e più obblighi di trasparenza. Con l'approvazione definitiva da parte del Senato del ddl che riforma le norme sui rimborsi elettorali, i partiti dovranno fare i conti con il dimezzamento delle risorse disponibili per il 2012 (da 182 a 91 milioni di euro) e una riduzione negli anni successivi. I risparmi ottenuti nel biennio 2012-2013, pari a 160 milioni di euro, saranno destinati da subito ai terremotati dell'Emilia e dell'Abruzzo.

Finanziamento, sistema misto al debutto
Le nuove norme prevedono a un sistema misto di finanziamento pubblico e privato e controlli dei bilanci. In particolare, viene modificato il sistema di contribuzione pubblica alla politica: il 70% del fondo a favore dei partiti continuerà ad essere erogato a titolo di rimborso per le spese sostenute in occasione delle elezioni, il restante 30% sarà legato alla capacità di autofinanziamento del partito, ed erogato in modo proporzionale alle quote associative e ai finanziamenti privati dei militanti e dei simpatizzanti. In pratica, i partiti potranno contare su 50 centesimi di fondi pubblici per ogni euro ricevuto a titolo di quote associative ed erogazioni liberali da parte di persone fisiche o enti. Per avere diritto alla ripartizione, i partiti dovranno dotarsi di uno statuto democratico.

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Libri contabili sotto controllo
La riforma punta anche a garantire la massima trasparenza: introdotto infatti l'obbligo di sottoporre i bilanci al giudizio di una società di revisione. Il controllo dei libri contabili dovrà essere affidata ad una Commissione ad hoc composta da cinque magistrati designati da Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti. Previsto anche un articolato sistema di sanzioni: la mancata presentazione del bilancio, ad esempio, può comportare la cancellazione del contributo pubblico. Punibili anche i tesorieri, che perderanno la legittimazione a sottoscrivere i rendiconti relativi agli esercizi dei cinque anni successivi.

Bilanci on line
Tra i nuovi criteri di trasparenza, anche l'obbligo di pubblicare i documenti di bilancio sul sito internet del partito o del movimento e in una sezione ad hoc del sito della Camera. Ridotto anche l'importo (da 50mila a 5mila euro) al di sopra del quale sarà necessario dichiarare pubblicamente i contributi ricevuti da privati. Non ci potranno più essere nei bilanci entrate anonime. La quota di detraibilità dalle imposta delle erogazioni liberali dei privati ai partiti, ora la 19%, è invece destinata a salire al 24% nel 2013 e al 26% dal 2014, mentre scende (da 100mila a 10mila euro) il limite massimo dell'importo detraibile. Stessi aumenti anche per le donazioni in favore delle Onlus dove il tetto massimo dell'importo detraibile sarà di 2.065 euro. Infine, il nuovo regime introduce un tetto di spesa per le campagne elettorali anche per le elezioni europee e comunali, in linea con quanto avviene oggi per le elezioni politiche e regionali. [SM=g7349]


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Uomini e donne d’oro
Sono ricchi, talvolta ricchissimi, hanno storie diverse, alcuni lavorano tantissimo, altri hanno solo cariche di rappresentanza ma ben remunerate. Ma hanno tutti una cosa in comune: lavorano per la Pubblica amministrazione. Grazie a una legge del 1982, ogni anno i “titolari di cariche elettive e direttive di alcuni enti”, cioè manager scelti dalla politica per guidare pezzi del potere economico statale o parastatale, devono rendere nota la loro dichiarazione dei redditi dell’anno precedente e la loro situazione patrimoniale, le auto che possiedono e le società di cui hanno azioni. Attenzione: si parla dei redditi complessivi, non degli stipendi pagati dalla pubblica amministrazione (anche se per molti le due cose coincidono, soprattutto per quelli al vertice di istituzioni che rendono incompatibili gli incarichi privati). Dal bollettino pubblicato ieri sui redditi 2010 che Il Fatto Quotidiano ha potuto consultare emerge uno spaccato della società italiana, il racconto di chi sono i veri ricchi di questo Paese (almeno i veri ricchi che non evadono, o quasi).

Nell’elenco compaiono alcuni politici, tipo Piero Fassino (128.191 euro) o Matteo Renzi (109.573 euro) in quanto presidenti di fondazioni locali, a Torino il teatro Regio, a Firenze il Maggio Fiorentino. Gianni Alemanno, citato in quanto presidente della Fondazione teatro dell’Opera di Roma, dichiara 152.055. Ma sembrano indigenti a confronto degli altri. Gli stipendi più alti si trovano nella prima linea delle società controllate dal Tesoro, nomi poco conosciuti al grande pubblico ma strapagati: guadagna 727.170 euro Domenico Arcuri, amministratore delegato di quell’Invitalia che aveva scelto lo squattrinato Massimo Di Risio per rilevare la Fiat di Termini Imerese (ora è stato scaricato da tutti, dopo aver fatto perdere un anno di tempo). Il vicepresidente di Fintecna, società che sta passando dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, Vincenzo Dettori, dichiara 392.392 euro. Mentre i due vertici della Cassa depositi e prestiti sono su un altro ordine di grandezza: il presidente Franco Bassanini ha un reddito di 567.262, l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini 1.925.997.

Ci sono anche figure di cui ci eravamo un po’ dimenticati: a fine 2011 il professor Augusto Fantozzi si è dimesso da commissario straordinario di Alitalia, incaricato di liquidare quel che restava della bad company, ma per il 2010 ha dichiarato un reddito di 3.686.272. Il suo compenso per l’attività di commissario è sempre stato misterioso e tuttora non sappiamo quanta parte di quei 3,6 milioni sia dovuta a tale attività. Il suo successore Stefano Ambrosini, che nel 2010 ancora non era subentrato a Fantozzi, si ferma a 957.379. L’ex leghista Dario Fruscio è stato per anni nel cda dell’Eni, poi è passato all’Agea, la società che gestisce i finanziamenti all’agricoltura, Umberto Bossi lo aveva rimosso e lui è riuscito a riprendersi la poltrona a colpi di ricorsi al Tar: deve essere ben pagata, visto che nel 2010 Fruscio ha dichiarato 1.048.478 euro. Un altro manager di area leghista, il varesotto Giuseppe Bonomi, alla Sea che gestisce l’aeroporto di Malpensa, dichiarava 919.847 euro.

NEL RAPPORTO curato dalla presidenza del Consiglio ci sono anche curiose eccezioni verso l’alto e verso il basso. L’imprenditrice milanese Diana Bracco, che figura in quanto presidente di Expo 2015, ha un reddito di 5,6 milioni di euro, ma non stupisce più di tanto, è noto che il suo gruppo sia redditizio. Sorprende invece un po’ la situazione di Mauro Cipollini, amministratore delegato di TechnoSky, una controllata dell’Enav, l’ente nazionale per l’aviazione civile che è finito al centro di alcune inchieste per presunte tangenti. Cipollini nel 2010 ha dichiarato soltanto 3.987 euro. Eppure nel 2007 ha comprato una Mini Cooper e l’anno successivo, nel 2011, immatricola una Porche Cayenne. Altra curiosità: nell’elenco c’è perfino il professor Francesco Alberoni, un tempo guru della sociologia all’Università di Trento oggi pensionato ed editorialista (nel 2010 ancora al Corriere della Sera) e presidente del Centro sperimentale di cinematografia: reddito da 396.389 euro.

Chi lavora alla Rai e alla Banca d’Italia ha redditi decisamente superiori. L’ex presidente della tv pubblica, il giornalista Paolo Garimberti, nel 2010 guadagnava 670.304 euro, l’allora direttore generale Mauro Masi ne dichiarava quasi altrettanti, 695.466, la sua sostituta Lorenza Lei si fermava a 424.106. Alla Banca d’Italia nel 2010 il più ricco era Mario Draghi, allora governatore, con 1,021 milioni di euro. Il suo direttore generale, Fabrizio Saccomanni, che ora potrebbe essere riconfermato dopo aver sfiorato la nomina a governatore, non se la passava tanto peggio: 838.596 euro. Ignazio Visco, suo vice all’epoca e oggi governatore, dichiarava la metà ma comunque cifre consistenti: 405.201 euro. Poi c’è Finmeccanica, società controllata dal Tesoro e di cui tutto è noto, visto che è quotata in Borsa. O meglio, sono noti gli stipendi dei suoi top manager ma non le loro dichiarazioni dei redditi. Eccole: nel 2010 Giuseppe Orsi, oggi presidente, dichiarava 1,654 milioni, l’allora presidente Pier Francesco Guarguaglini 5,5 milioni, Giorgio Zappa e Alessandro Pansa, entrambi con la carica di direttore generale, avevano rispettivamente un reddito di 2,5 e 2,6 milioni.

DA QUASI SEI ANNI diversi governi hanno provato a mettere un tetto agli stipendi, anche cumulati, dei manager che lavorano nel settore pubblico. L’ultimo tentativo è del governo Monti che a marzo ha fissato il limite a 294mila euro lordi all’anno. Sarebbe un bel crollo del reddito di molti dei protagonisti del rapporto di palazzo Chigi. Per rendere operativo il tetto serve un decreto del ministero del Tesoro che, come ricordato ieri da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, ancora non si è visto. Qualche mese fa il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, reddito 2010 da 1,36 milioni, si era detto sicuro che nel 2013 avrebbe dichiarato soltanto i 294 mila euro previsti dal governo. Forse era stato troppo pessimista.

www.informarexresistere.fr/2012/07/18/paperoni-di-stato-ecco-le-dichiarazioni-dei-redditi-dei-manager-pubblici/#axzz2...

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A Bruxelles arriva la resa dei conti sull’acquisto di titoli di Stato dei Paesi in crisi e già si profila lo tsunami della vigilanza centralizzata che porterà ulteriore scompiglio negli assetti di potere delle banche nazionali. Come risponderà a tutto questo la Banca d’Italia? In via Nazionale si guarda ai prossimi direttivi della Bce con crescente apprensione e intanto si varano speciali contromisure: un plotone di giardinieri armati di semi, piante ornamentali e annaffiatoi pronti a sparare sul mercato una micidiale raffica di fiori. Fiori per sette milioni di euro. Tanto costa la manutenzione delle piante e dei giardini nelle sedi di rappresentanza e nel parco sportivo del Tuscolano a Frascati, quartier generale dell’istituto con campi da tennis, calcio e piscina. Non mancano progetti per l’orto didattico e la raccolta delle olive made in Bankitalia. E se non si fermano gli attacchi speculativi? Suoniamo l’allarme generale aggrappati ai videocitofoni e campanelli nuovi di zecca da 15 milioni di euro appena acquistati.

Tutto pagato con fondi propri della Banca d’Italia, cioè nostri. Perché pur essendo in mano a banche private, che detengono il 94,33% delle quote, la Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico ed esercita su mandato la funzione di Tesoreria dello Stato. Alla fine dei conti il bilancio è sempre attivo grazie alla gestione del portafoglio di titoli pubblici e riserve (nel 2011 ha prodotto utili per 1,1 miliardi). Ma tanti sono anche i soldi che volano letteralmente fuori dalla finestra di Palazzo Koch.

Spese difficili da mandar giù in tempi di crisi e più ancora da quando la Banca d’Italia s’è ristretta. Da tempo non si occupa più di politica monetaria e presto anche i compiti di vigilanza andranno a Francoforte. “Sprechi e inefficienze ci sono ovunque ma la Banca d’Italia è un’eccellenza rispetto alle altre banche centrali europee”, spiega Donato Masciandaro, docente di economia monetaria alla Bocconi e direttore del Centro Paolo Baffi su banche centrali e regolamentazione finanziaria: “Il punto vero – continua – è che presto dovrà essere presto riformata in profondità per sostenere l’urto del nascente sistema di vigilanza accentrato nella Bce”. Intanto, però, i costi restano extra-large. Sulle spalle degli italiani è infatti rimasto il carrozzone dei tempi gloriosi, con un carico di settemila dipendenti, centinaia di immobili di pregio e una serie di costi, sprechi e privilegi che partono dall’alto: il presidente Ignazio Visco, per fare un esempio, guadagna 750mila euro l’anno, cioè il doppio dell’omologo tedesco Jens Weidmann, capo della potente Bundesbank che ha tenuto al guinzaglio i governi di mezza Europa sull’acquisto di titolo di Stato dei Paesi in crisi.

Ai tempi del rigore era inevitabile che la spending review bussasse al 91 di via Nazionale. Lo ha fatto però in punta di piedi, battendo un colpo all’ultimo minuto con un emendamento dei relatori al Senato poi ribadito dal governo, nero su bianco, giusto la settimana scorsa: a partire dal 2013 anche il salotto delle banche dovrà adeguarsi ai dettami della revisione di spesa con tagli su auto blu, ferie, buoni pasto e consulenze. Ma a ben guardare sarà una potatura leggera perché bilancio, affidamenti, acquisti della Banca d’Italia rivelano ben altri sprechi e risorse, mele d’oro in un giardino delle Esperidi dove neppure i super tecnici s’addentrano. E allora ecco come si disperde l’oro degli italiani sotto l’occhio distratto del governo.

Esercito di dipendenti e poltrone d’oro. Visco: un tecnico da 750mila euro
A scorrere il bilancio della Banca d’Italia due voci balzano all’occhio: il costo del personale per 819 milioni e le spese di amministrazione per 420. Cifre mostruose a discapito di un ruolo sempre più ridotto a favore della Bce. Partiamo dalla punta dell’iceberg perché in Banca d’Italia è d’oro anche quella. Il direttorio di nomina governativa che controlla l’autorità bancaria costa in organi collegiali e periferici 3,1 milioni di euro l’anno in compensi. Ma non si tratta di centinaia di persone ma poche decine: i 13 consiglieri superiori prendono 371mila euro, i cinque componenti del collegio sindacale 137mila. Ed ecco la punta, platino: al governatore Ignazio Visco, come detto, vanno 757.714 euro, al direttore generale Fabrizio Saccomanni vanno 593mila euro, i quattro vice-direttori (oggi tre, perché il 12 luglio Anna Maria Tarantola ha lasciato l’incarico per assumere la presidenza della Rai) hanno emolumenti da 441mila euro.

I dipendenti sono 7.315 con 2mila tra funzionari e dirigenti mentre il precariato è poco da queste parti, il personale a contratto si ferma a 33 unità. Il punto è che questo personale da anni è in sovrannumero e finisce per costare una follia: 819 milioni di euro l’anno tra stipendi, accantonamenti per oneri maturati, diarie per missioni e trasferimenti. La spesa media per dipendente è di 109.300 euro. Com’è possibile? Semplice, il personale della Banca d’Italia eredita le conquiste degli anni migliori sul fronte dei trattamenti economici e dei servizi interni. Roba da gridare hip hip hooray! se il costo poi non ricadesse sugli altri italiani che questi “servizi” ormai se li sognano. Ecco alcuni esempi. L’assistenza sanitaria privata costa 32 milioni di euro l’anno, l’assicurazione 33,5 (fino al 2015). Il taglio dei buoni pasto della spending si farà sentire poco da queste parti. Le sedi di Roma, Frascati e 11 filiali hanno la sede interna: in cinque anni costa 41 milioni, otto all’anno. Le altre filiali hanno servizi mensa in convenzione. Il servizio di trasporto per i tragitti casa-lavoro per il personale dell’area romana un milione e due.

Prima che Draghi lasciasse via Nazionale per andare in Europa ha preferito esser certo che laggiù, a Roma, capissero bene quando dall’Eurotower parla di spread e fiscal compact. Così la Banca d’Italia ha affidato a un’agenzia un programma di formazione di inglese da 620mila euro, che per dei corsi di lingua non sono noccioline, soprattutto perché i bandi di assunzione dell’ente richiedono espressamente una conoscenza avanzata dell’inglese. Prima dell’assunzione, non dopo. Senza contare che da anni sette consulenti-traduttori sono a libro paga dell’ente al costo di mezzo milione di euro. E qui si apre il capitolo consulenze, un dossier sempre corposo e soprattutto costoso visto che al 30 agosto i consulenti esterni a libro paga di Bankitalia sono già 112 e totalizzano incarichi per due milioni e mezzo di euro. Alcuni sono plurimi e molti affondano le radici in rapporti che si sono persi nel tempo, rinnovati di anno in anno fin dagli anni Novanta e senza un termine o soluzione di continuità. La spending review qui non ci mette mano.

Bankitalia real estate
Fin qui il personale. Ma a gravare sui conti dell’istituto sono anche i costi di struttura legati alla manutenzione di un patrimonio immobiliare sterminato che la Banca d’Italia ha collezionato dai tempi della sua nascita a oggi. Correva l’anno 1893, la capitale era Firenze e c’era ancora Umberto I. Da allora la corsa al mattone dell’istituto non si è più fermata e nell’anno corrente – dicono i bilanci di via Nazionale – il patrimonio per fini istituzionali ha raggiunto una consistenza pari 4,2 miliardi (1.3 quelli a garanzia dei trattamenti di quiescenza del personale). Un centinaio di immobili, per la maggior parte stabili di gran pregio nei centri storici delle città capoluogo di regione e provincia dello Stivale (oltre a terreni per una valore di quasi due miliardi). Alcuni beni non più necessari sono in affitto (dalle locazioni entrano 27 milioni) mentre nel triennio 2008-2010 una parte eccedente del patrimonio è stata razionalizzata fino alla chiusura di 39 sedi provinciali. Nel 2010 è partita l’operazione di vendita di oltre 60 immobili affidata a un’advisor (Colliers International Italia – EXITone) per due milioni di euro. Dovevano arrivare 326 milionima ancora nessuno è stato venduto e i tempi stringono perché l’operazione era prevista entro tre anni. Siamo ancora alla pubblicazione del primo lotto da 16 immobili. Il secondo dovrebbe arrivare in autunno.

L’attuale rete operativa conta 20 filiali regionali e provinciali, 25 sportelli e 18 centri per la vigilanza, trattamento del contante, tesoreria dello Stato. Più tre sedi distaccate a New York, Londra e Tokyo.

Il budget per la manutenzione di questo patrimonio, stando agli affidamenti in corso, ha un budget 30 milioni di euro. Gli edifici del centro storico della Capitale ne impegneranno altri 14,6. Solo per mettere telecamere e citofoni al complesso di via Nazionale 91, Tuscolana e del Centro Donato Menichella a Frascati si stanno per spendere in progettazione, installazione e mantenimento 15 milioni (oltre Iva). Poi c’è l’area di via Tuscolano 417, quartier generale dell’istituto, che ha in corso affidamenti per 21 milioni. Per gli edifici romani e per il “Centro Donato Menichella” di Frascati, che ospita buona parte delle strutture di elaborazione dati, è in arrivo una green revolution: è in corso di affidamento una gara per la manutenzione del verde e il noleggio di piante ornamentali, fioriere, composizioni di fiori recisi e aiuole per sette milioni di euro. Solo gli interventi di manutenzione dell’ex Cinema Quirinale, portone di rappresentanza della Banca, costano 3 milioni di euro.

Il turismo è in crisi? Domanda da 8 milioni di euro
Il fiore all’occhiello di Bankitalia è sempre stato il suo Ufficio Studi, munifico produttore di studi comparati, analisi dei settori produttivi e degli scenari economici. Alcuni studiosi, imprenditori e giornalisti hanno però iniziato a rimpiangere gli anni d’oro, la stessa Confindustria ha lamentato che anche questo ramo di attività si sta seccando. L’ultima relazione annuale al Parlamento, a onor del vero, da conto di una grande attività con 950 note congiunturali sull’Italia, l’area euro e i mercati internazionali e ancora studi su studi. Ma i programmi di ricerca vengono fatti spesso all’esterno con costi esorbitanti.

Qualche esempio. Che il turismo sia fiacco lo sanno tutti, basta chiedere a un albergatore di Venezia o Riccione. Ma a Palazzo Koch vogliono vederci chiaro e così hanno commissionato una Indagine statistica campionaria (in pratica interviste) sul turismo internazionale. L’intento, semplificando, è capire quanto spendono turisti e uomini d’affari durante il loro soggiorno italiano. Peccato che per saperlo spenda otto milioni di euro e che l’ultima ricerca di questo tipo risalga ad appena tre anni fa. Bankitalia pensa anche ai bilanci delle famiglie italiane. E lo fa commissionando un’indagine per gli anni dal 2013 al 2016. Anche qui l’intento è nobile perché si tratta di capire come si distribuiscono nel tempo la ricchezza e il reddito in un Paese in crisi. Le modalità sono le classiche interviste su un campione di 10mila famiglie in 600 comuni ma il costo è di tre milioni di euro. Qualche famiglia, questa è una certezza, si sarebbe accontentata di qualche dato in meno e qualche soldo in più.


www.ilfattoquotidiano.it/2012/09/17/quanto-costa-bankitalia-dai-7-milioni-per-fiori-ai-15-per-nuovi-campanelli...
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Ogni consigliere regionale costa come un super manager, 743 mila euro all'anno. La classifica peggiori

di Gianni Trovati
Cronologia articolo19 settembre 2012Commenti (5)
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Argomenti: Regioni | Veneto | Molise | Calabria | Piemonte | Sicilia | Lazio | Lombardia | Basilicata




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Ogni seggio costa 750mila euro
Ognuno dei 1.111 consiglieri regionali pesa sul bilancio pubblico come un manager di altissimo lignaggio: 743mila euro all'anno, calcolando solo le spese più "politiche" e senza considerare le ricadute legate al personale amministrativo di supporto. Una cifra imponente, che fa smarrire i risparmi veri o presunti creati finora dagli unici tagli applicati davvero ai "costi della politica", quelli che hanno dimezzato i consigli dei Comuni piccoli e piccolissimi dove i gettoni di presenza viaggiano intorno al centinaio di euro all'anno. Come ogni media, però, anche questa è figlia di situazioni molto diverse fra loro: l'inchiesta riassunta nella grafica riportata misura le performance dei consigli regionali in dieci indicatori-chiave, dal numero di consiglieri e commissioni alle loro indennità e rimborsi, passando dalle spese per organi istituzionali e consulenze, e mette nel mirino i valori fuori media, ponderati in base alle dimensioni della Regione.

A uscirne meglio sono Emilia Romagna, Marche e Veneto, ciascuna delle quali mostra un solo valore su dieci colorato di rosso perché peggiore di quello medio delle altre amministrazioni, mentre in coda si incontra il Molise (7 valori peggiori della media) seguito da Sicilia, Calabria, Basilicata e Piemonte (6 valori). Anche il Lazio, insieme alla Lombardia, occupa le parti basse della graduatoria.
GRAFICI
Gli indicatori di costo della politica regione per regione

Il ranking, naturalmente, non pretende di misurare con puntualità l'efficienza delle istituzioni, soggetta a un'infinità di variabili, ma i dati fanno balzare agli occhi le caratteristiche delle diverse Regioni. Sul versante delle uscite in rapporto alla popolazione, per esempio, Molise e Basilicata sono penalizzate dalle dimensioni, ma è giustificabile che la Sicilia spenda per gli organi istituzionali sei volte tanto la Toscana e dieci volte la Puglia? E perché mai, in base alle indennità nette e ai rimborsi censiti dalla stessa conferenza dei presidenti dei consigli regionali, un politico lombardo può arrivare a cumulare più del doppio di un collega emiliano? Senza contare i casi, come in Veneto e in Piemonte, in cui i rimborsi possono addirittura spingere le entrate di un consigliere sopra quelle del suo presidente.

Obbligati dalla manovra-bis dell'anno scorso, che ha rivisto al ribasso i numeri della politica locale, molte Regioni hanno approvato o stanno lavorando a riforme che riducano le dimensioni delle assemblee (solo la Lombardia era già in linea con i nuovi parametri), ma il problema non è solo di numeri. In molti casi, infatti, bisogna vedere se i consiglieri "semplici", privi di galloni (e quindi di indennità aggiuntive), esistono davvero. Tra presidenti e vicepresidenti di commissione, capigruppo, segretari, questori e consiglieri-assessori, i posti a stipendio maggiorato distribuiti dai vari consigli sono 862, cioè il 78% dei seggi totali.

Il record? Proprio nel Lazio, dove per 71 consiglieri la proliferazione di gruppi (spesso con un solo componente, presidente di sé stesso), commissioni e comitati arriva a prevedere fino a 110 posti in grado di spingere la busta paga sopra ai livelli di base. Naturalmente, un capogruppo può essere anche vice-presidente di commissione, o consigliere-segretario, altrimenti sarebbe impossibile coprire tutte le caselle (lo stesso accade in Abruzzo, Basilicata, Calabria e in molti altri casi). Anche in questo capitolo, però, non tutti si comportano allo stesso modo. Mentre in qualche consiglio si sono moltiplicati i mini-poltronifici creati da gruppuscoli e commissioni, altrove le indennità aggiuntive si contano sulle dita (per esempio nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, in tutto equiparabili alle Regioni).


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I tagli ai maxi-stipendi (sopra i 90mila euro) dei dirigenti pubblici sono incostituzionali. Illegittima anche la scure sulle retribuzioni dei magistrati

con un articolo di Davide Colombo
Cronologia articolo11 ottobre 2012Commenti (143)
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Argomenti: Pubblico impiego | Corte Costituzionale | Pubblica Amministrazione | La Consulta




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I tagli alle retribuzioni superiori ai 90mila euro dei soli dipendenti pubblici, previsti dal decreto legge numero 78 del 2010, sono incostituzionali. Lo ha deciso la Consulta, stabilendo in particolare l'illegittimità dell'articolo 9, nella parte in cui dispone che a decorrere dal primo gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 «i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, siano ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro». Per la Corte, «il tributo imposto determina un irragionevole effetto discriminatorio».

A giudizio della Consulta le disposizioni governative si pongono «in evidente contrasto» con gli articoli 3 ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge...") e 53 ("Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva....") della Carta fondamentale. «L'introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto - si legge nella sentenza - ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione víola, infatti, il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d'imposta economicamente rilevante». Secondo i giudici delle leggi "da un lato, a parità di reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici. D'altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con l'art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità, l'ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura».

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PARLAMENTO 24/Dalla riforma del mercato del lavoro alla previdenza dei manager pubblici (di Nicoletta Cottone e Vittorio Nuti)

DOCUMENTI
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Gli ultimi redditi dichiarati dai manager pubblici
I dati delle retribuzioni
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«Nel caso in esame, dunque, l'irragionevolezza - spiega la Consulta - non risiede nell'entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei differenti interventi di solidarietà, poi, prelude essa stessa ad un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato ai pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un 'universale' intervento impositivo». La Corte costituzionale non nega il potere del Governo di intervenire sulla materia: «L'eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare - argomenta la sentenza - è, infatti, suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano. Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l'ordinamento costituzionale. In conclusione, il tributo imposto determina un irragionevole effetto discriminatorio».

I tagli alle retribuzioni dei magistrati
La Consulta ha dichiarato incostituzionali anche i tagli sulla retribuzione dei magistrati previsti dallo stesso decreto legge. In particolare la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della parte della legge che prevede che «l'indennità speciale di cui all'articolo 3 della legge n. 27 del 1981, spettante al personale indicato in tale legge, negli anni 2011, 2012 e 2013, sia ridotta del 15% per l'anno 2011, del 25% per l'anno 2012 e del 32% per l'anno 2013». Sempre per la magistratura é stata dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma che stabilisce che «non sono erogati, senza possibilità di recupero, gli acconti degli anni 2011, 2012 e 2013 ed il conguaglio del triennio 2010-2012 e che per tale personale, per il triennio 2013-2015 l'acconto spettante per l'anno 2014 è pari alla misura già prevista per l'anno 2010 e il conguaglio per l'anno 2015 viene determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014; nonché nella parte in cui non esclude che a detto personale sia applicato il primo periodo del comma 21».



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L'irragionevole «effetto discriminatorio» individuato nel taglio delle retribuzione dei manager pubblici potrebbe costare 50 milioni di euro

analisi di Davide Colombo
Cronologia articolo11 ottobre 2012Commenti (4)
In questo articolo

Argomenti: Management | Corte di Cassazione | Corte Costituzionale | Romano Prodi | Governo Berlusconi




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L'irragionevole «effetto discriminatorio» che la Corte costituzionale ha individuato nella norma del 2010 che tagliava per il triennio 2011-2013 del 5 e 10% la parte di retribuzione dei dipendenti pubblici eccedente, rispettivamente, i 90 e 150mila euro lordo annui, potrebbe costare alle casse dello Stato non meno di 50 milioni, stando alle prime indiscrezioni che circolano in ambienti governativi.

Con il colpo di spugna al «prelievo di solidarietà» introdotto dal Governo Berlusconi e mai esteso al settore privato si dovranno restituire a tutti gli interessati non solo la cifra prelevata ma anche gli interessi di legge. Si tratta di una platea di oltre 26mila persone, tra dirigenti, medici, magistrati e docenti universitari, che hanno subìto il prelievo dalla busta paga del gennaio 2011 in poi.

Le risorse dovranno essere necessariamente reperite con la Legge di stabilità dalla quale, a quanto sembra, sta per essere stralciato l'articolo che dispone il blocco dei contratti fino al 2014, misura quest'ultima che verrà invece confermata con un atto amministrativo. Il prelievo sui pubblici cifrava una minore spesa prevista in 29 milioni l'anno per il triennio in questione, stando alla relazione tecnica che accompagnava il decreto legge numero 78 del 2010, il cui articolo 9 è stato giudicato incostituzionale dalla Corte. Con il colpo di spugna al contributo di solidarietà saltano anche le norme che bloccavano gli scatti e le progressioni degli stipendi dei magistrati; la prima categoria a insorgere conto il provvedimento varato due estati fa.

In attesa di conoscere quali contromosse deciderà di adottare palazzo Chigi, ora l'attenzione si sposta su un'altra norma, contenuta nel decreto «Salva Italia» (Dl 201/2011) che ha reintrodotto in forma modificata il tetto alle retribuzione dei dipendenti pubblici varato per la prima volta da Romano Prodi nel 2007 e che non può essere superiore allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione (ovvero 294mila euro lordi annui). La norma è stata regolata con un Dpcm il 23 marzo scorso ma anche su quella risultano pendenze davanti alla Corte che sono motivate dallo stesso quesito sostanziale che aveva mosso i ricorsi contro il prelievo di solidarietà: perché ai pubblici sì e ai privati no?
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commenti dalla rete:


Questo paese marcio e fetido sta producendo escrementi in gran quantità. E questi provengono dalle più alte istituzioni e cariche dello Stato, presidente della Repubblica in testa, parlamento e il resto a seguire. Non vi è più dignità alcuna, ne rispetto verso i cittadini, che sono IL PAESE. Ogni potere si rigira le cose a proprio uso e consumo. Una vergogna inaudita. Non credo di fare una affermazione azzardata, se dico che le Mafie, che fanno parte integrante del corpo dello stato, hanno una loro dignità, ed è certamente maggiore dello Stato italiano e di tutte le sue componenti "legali". In altro articolo di oggi ci si domanda, se il debito dello stato, così come è considerato, non penalizzi lo "spread" e meriti magari altre considerazioni. Certo, il debito è una palla al piede e ci penalizza, ma più di esso, sono i politici vergognosi e disgustosi che ci squalificano agli occhi del mondo. E la Consulta è parte integrante di questi soggetti squalificanti.
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Tutti gli sprechi della Croce Rossa italiana, mega-stipendificio di Stato

di Fabio PavesiCronologia articolo5 febbraio 2013Commenti (24)
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Argomenti: Assistenza medica | Croce Rossa | Francesco Rocca | Corte dei Conti | Cri



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(Fotogramma)
Chi glielo va a dire a uno qualsiasi dei 150mila volontari che la loro Croce Rossa è un carrozzone inefficiente e sprecone? Loro che, se va bene, prendono come rimborso per una giornata di lavoro un buono pasto. Un esercito di lettighieri, autisti e operatori sui mezzi di soccorso che donano gratis il loro tempo, mentre ogni anno lo Stato italiano sorregge i conti dell'associazione umanitaria e di assistenza con la bellezza di 180 milioni di euro.

Sommateli e dal 2005 a oggi (anni in cui i bilanci neanche venivano prodotti) il conto che il contribuente italiano ha pagato per tenere in piedi la Croce Rossa supera il miliardo di euro. Il bello, o meglio il grottesco, è che il maxi-contributo pubblico serve in realtà solo per pagare gli stipendi.

A chi? Non ai 150mila volontari, ma ai 4mila dipendenti che affollano uffici e sedi centrali e periferiche della Croce Rossa Italiana. Si dirà che è troppo «facile sparare sulla Croce Rossa», ma di facile nel ginepraio dei conti dell'organizzazione c'è ben poco. Francesco Rocca, il commissario straordinario in carica dal 2008 ed eletto presidente poche settimane fa, ci ha messo un sacco di lavoro per provare a rimediare a una situazione difficile. L'ultimo bilancio presentato era del 2004. Poi il nulla. Niente contabilità per un sacco di anni. Rocca è riuscito a comporre i bilanci dal 2005 al 2011 e ora un po' di chiarezza è stata fatta. Ma quell'opera di trasparenza non basta ancora a giustificare quell'abnorme stipendificio pubblico che è stato ed è la Croce Rossa italiana. Quando è arrivato Rocca si è trovato 5mila dipendenti e 23 auto blu, con due autisti a disposizione 24 ore su 24 per macchina. Cosa c'entrino quelle auto blu con lo spirito di un ente umanitario non è dato sapersi. Non c'era un bilancio dal lontano 2004 e c'era da coordinare 19 comitati regionali, 103 comitati provinciali e ben 460 comitati locali. Un coacervo di realtà che spesso non comunicano tra loro. Basti pensare che solo da poco si è riusciti a imporre una tesoreria unica che possa coagulare i flussi finanziari e costruire un conto consolidato che tuttora manca. Senza un consolidamento non c'è leggibilità dei conti. E così ti ritrovi con comitati locali in attivo che convivono con comitati in profonda perdita.

Il salasso per gli stipendi
Ma il tema rilevante è l'ingente somma che ogni anno viene spesa solo in stipendi. Oggi dopo l'opera di razionalizzazione operata da Rocca i dipendenti sono quasi 4mila. Erano 5mila sei anni fa. Ma il costo è sempre elevatissimo. Solo per il personale, documenta la Corte dei Conti, si spendevano 208 milioni nel 2005. Corrispondono a più della metà dell'intera spesa corrente dell'ente che vale poco meno di 400 milioni. Nel 2007 il mega-stipendificio della Croce Rossa elargiva 209 milioni di stipendi e nel 2010 la cifra si è attestata a 208 milioni. Con il 2010 e il 2011 c'è finalmente un calo, ma non tale da cambiare l'ossatura del bilancio della Cri. Per le ambulanze, la benzina e tutto ciò che serve a far funzionare il servizio di assistenza si spendono mediamente 150 milioni di euro, mentre solo per il pagamento dell'esercito degli stipendiati se ne vanno almenno 200 milioni. Per anni la Croce Rossa oltre che assolvere a una funzione assistenziale è stata in realtà un gigantesco welfare sociale sia per il personale civile che per quello militare. Molte delle assunzioni avvenivano per chiamata diretta. Il modus tipico dei sistemi clientelari. E non è finita qui. Perchè premono alle porte degli uffici circa 1.500 precari. Vogliono essere stabilizzati e di fatto è loro consentito sia da una vecchia finanziaria del 2007 sia dai giudici che il più delle volte accolgono le richieste nelle cause. In più pendono numerosi contenziosi sui compensi per la produttività che i precari richiedono alla stessa stregua del personale di ruolo. Cause e contenziosi giuslavoristici che secondo la Corte dei Conti peseranno per 50-70 milioni sui bilanci dei prossimi anni.

Più di un miliardo dallo Stato
Vista così la situazione appare sempre meno sostenibile. Già perchè nonostante il miliardo e oltre immesso dallo Stato nei bilanci dell'ente dal 2005 a oggi, la Croce Rossa finisce per chiudere in disavanzo: l'equilibrio tra entrate e uscite è stato negativo per 14 milioni nel 2011 e per 9 milioni nel 2010. Imponente è il buco della Cri della Regione Lazio dove il disavanzo è stato di 26 milioni nel 2011 dopo il buco di 16 milioni l'anno prima. Vero è che la Cri conta su un avanzo cumulato di amministrazione che a inizio del 2011 era di 69 milioni e che per il 2012 il preventivo finanziario è stimato in pareggio.

Ma sui bilanci così spendaccioni della Croce Rossa pesano residui attivi e passivi giganteschi, cioè entrate e uscite scritte a bilancio ma non incassate o pagate, tali da rendere aleatorie le scritture contabili. Si pensi che i soli residui attivi, cioè le entrate non incassate negli anni valevano 621 milioni a fine 2011. Una volta e mezza l'intero bilancio sul lato delle entrate. Una bomba inesplosa su cui la Corte dei Conti ha lanciato più di un allarme. Il neo-presidente Rocca ha pulito 7mila voci di bilancio e ha cancellato entrate addirittura del 1981. Incassi fantasma di oltre trent'anni fa e tenuti per anni nei conti come se fossero davvero riscuotibili. Uno dei tanti aspetti grotteschi del mega-stipendificio pubblico sotto le insegne della croce rossa in campo bianco.

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Un piccolo balzello per gli automobilisti, un grande incasso per l’Automobil Club Italia (Aci). Pochi ci hanno fatto caso, ma da qualche giorno per le pratiche automobilistiche si paga il 30 per cento in più. Non tantissimo in termini assoluti, meno di 7 euro a pratica, anche se in un momento come questo, con le vendite auto in picchiata, pure un refolo diventa spiffero. L’Aci minimizza e dice che si tratta di un aumento modesto, che oltretutto le tariffe erano ferme da 19 anni e considerando che gli italiani cambiano in media auto una volta ogni sei o sette anni, il rincaro su base annua è di appena un euro. Come un caffè.

Tutto vero. Se la faccenda, però, si guarda da un’altra angolazione e cioè ci si interroga sul motivo dell’aumento e ci si chiede a chi e a che cosa serve, allora cambia tutto. Quel piccolo rincaro appare non solo ingiustificato perché non copre alcun aumento di costi, ma serve all’Aci per incassare un bel po’ di quattrini e imbellettare bilanci sempre più sofferenti. Quel rincaro per l’Aci guidato da Angelo Sticchi Damiani è enorme: se si moltiplica il numero di pratiche automobilistiche del 2012 (circa 10 milioni) per l’aumento delle tariffe e si sconta la quota di una partita che riguarda le Province, si scopre che nelle casse dell’Automobil club pioveranno la bellezza di circa 40 milioni di euro in più all’anno. Un bel colpo.

Che l’aumento delle tariffe serva soprattutto a dare ossigeno all’Aci lo riconosce l’Aci stesso, anche se in forma obliqua e sfumata. E c’è scritto pure nel testo del decreto con cui il governo del professor Mario Monti in articulo mortis ha stabilito l’incremento lasciando così un bel ricordo di sé alla lobby dell’Automobil Club. L’Aci in una nota inviata al Fatto Quotidiano e il decreto affermano proprio con le stesse parole che il rincaro serve “a garantire l’autonomo equilibrio economico finanziario del servizio, in rapporto ai costi effettivamente sostenuti per l’espletamento dello stesso”. Ma di quale servizio si tratta e di quali costi? Per capirlo bisogna entrare nel sistema delle pratiche auto. In Italia il 75 per cento di questi documenti viene effettuato materialmente dalle agenzie private che quindi ora si dichiarano molto contrariate per i rincari, costrette a metterci la faccia con gli automobilisti clienti, a riscuotere materialmente e poi, come sostituti d’imposta, girare gli importi al Pubblico registro automobilistico (Pra) dell’Aci. In pratica i costi di gestione di questo sistema ricadono sulle agenzie, mentre il Pra incassa e ringrazia sentitamente.

Da anni governi e varie forze politiche mettono all’ordine del giorno proprio l’abolizione del Pra considerandolo un inutile e costoso doppione della Motorizzazione civile. Ma poi il Pra nessuno lo tocca per un motivo semplice: se davvero saltasse il Pubblico registro, cadrebbe con esso tutto il castello di carte dell’Aci, i suoi apparati, gli interessi, le clientele. Il Pra è il polmone finanziario e la colonna portante dell’Aci: senza Pra, niente Aci. In Europa solo l’Italia ha un sistema barocco imperniato su due entità diverse per la gestione delle pratiche automobilistiche. Solo qui l’automobilista deve rivolgersi a due soggetti diversi (Motorizzazione e Pra) per ottenere due documenti distinti, la carta di circolazione e il certificato di proprietà. Da più di un decennio funziona lo Sta, lo Sportello telematico dell’automobilista, che ha facilitato la vita a cittadini e imprese, ma il Pra è rimasto ugualmente al suo posto.

Nel frattempo il suo costo è schizzato alle stelle: dal 1994 (anno del precedente aumento tariffario) ad oggi, le spese di gestione del Pubblico registro sono aumentate di 911 milioni di euro. Solo nel 2011 c’è stato un incremento di 65 milioni (più 42,70 per cento). L’aumento delle tariffe rimette i conti a posto e fa tirare un sospirone di sollievo all’Aci che, dopo aver raffazzonato i bilanci recenti con un contributo straordinario della controllata Sara assicurazione e la vendita della sede di Aci Informatica in via Fiume delle Perle al Torrino a Roma, stava vivendo con angoscia la prospettiva di un bilancio 2013 da urlo. L’aumento delle tariffe copre i buchi, tanto paga il parco buoi degli automobilisti.

da Il Fatto Quotidiano del 12 maggio 2013

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Se per i partiti si è avviata, pur a tappe e con grande lentezza, la cura dimagrante, per i costi degli organi costituzionali siamo ancora all'anno zero. In particolare per i costi sopportati dai contribuenti per il funzionamento della Camera e del Senato.
Nel 2012 il Parlamento nel suo insieme è costato al bilancio dello Stato la bellezza di 1,5 miliardi di euro. L'0,1% del Pil se ne è andato per funzionare le due assemblee legislative.
Un costo enorme: basti pensare che a ogni tornata elettorale i partiti incassano tutti insieme sui 150 milioni di euro. Ebbene un anno di Parlamento costa dieci volte il conto dei partiti. Eppure qualcosa ora sta cambiando: i due presidenti Laura Boldrini e Pietro Grasso appena insediati si sono tagliati lo stipendio del 30 per cento. E la Camera già dall'inizio di questa legislatura è intervenuta con tagli sulle cariche interne dei deputati e sui contributi finanziari ai gruppi parlamentari per 8,5 milioni di euro. Ma quegli 8,5 milioni su un costo per lo Stato di 992 milioni sono poco meno dell'1 per cento. Una goccia nel mare.
La rivoluzione dei risparmi? Vale solo il 5 per cento
Dal 2013, per effetto delle misure adottate in precedenza, il taglio della dotazione dello Stato alla Camera sarà consistente: per la prima volta il finanziamento che versa lo Stato scenderà da 992 milioni a 943 milioni. Un rispamio secco del 5 per cento. Basta questo per parlare di rivoluzione copernica per i costi della politica? Assolutamente no. Le misure sono flebili, hanno quasi un valore meramente simbolico. Perché Camera e Senato continuano, a dispetto del baratro su cui è affacciato il Paese, a costare tanto, troppo e in modo ingiustificato. Più di uno studio dimostra che il nostro Parlamento costa il doppio rispetto alle assemblee dei nostri partner europei. Eppure l'efficienza del legislatore italiano non è certo migliore di quello dei francesi o inglesi.
Spese folli per i dipendenti i deputati (e gli ex)
Già ma a cosa serve il quasi miliardo iniettato ogni anno nel bilancio della Camera? Se ne va quasi tutto per pagare gli stipendi e pensioni dei 1.500 dipendenti e dei 630 parlamentari. Solo le retribuzioni del personale della Camera valgono 238 milioni. Il che vuol dire che ciascun addetto alla Camera, dal barbiere, all'autista, al commesso fino al segretario generale ha uno stipendio medio annuo lordo di oltre 150mila euro. Diecimila euro al mese per 15 mesi. Nessuna impresa privata o pubblica al mondo può permettersi di pagare ogni dipendente una cifra così alta. Ma tant'è, tanto paga Pantalone.
E se agli stipendi si sommano i contributi il costo è di 287 milioni. Ma ci sono anche le pensioni degli ex-dipendenti. Pensioni d'oro che costano altri 216 milioni. E così pagare il personale vecchio e nuovo costa la bellezza di 500 milioni di euro, la metà del contributo statale alla Camera. L'altra metà è più o meno di appannaggio dei deputati in carica e degli ex. Tra indennità e pensioni, per pagare i deputati la Camera spende 300 milioni. E così, del miliardo che lo Stato mette a disposizione ogni anno, 800 milioni servono solo a pagare stipendi e pensioni (d'oro entrambe a deputati e dipendenti).
Al Senato, che è costato allo Stato 505 milioni nel 2012, pagare indennità, stipendi e pensioni ai dipendenti (circa 800 persone) e a senatori ed ex senatori si porta via circa 480 milioni.

Ora la manovra di risparmio dovrebbe, per i prossimi anni, portare a una minor richiesta di soldi allo Stato per 76 milioni di euro. Sembrano tanti, ma è solo una correzione sui largheggiamenti del passato. Basti pensare che nel 2001 il Senato costava allo Stato "solo" 350 milioni. Nel 2011 si è arrivati a 526 milioni. Un aumento del 50% dei costi in dieci anni, mentre nel Paese il Pil languiva.
La casta dei dipendenti
Quei 287 milioni che valgono i 1.500 dipendenti della Camera sono uno spregio a qualsiasi normale lavoratore. Sarà il prestigio dell'incarico, sarà il luogo deputato per eccellenza a dare l'immagine del Paese. Ma quell'immagine è strabica. Come è possibile che un neo-assunto documentarista guadagni netti al mese 1.900 euro e che un consigliere parta da 2.900 euro al primo giorno di lavoro? Retribuzioni che iniziano a galoppare fin dal pirmo giorno in modo inarrestabile: un consigliere parlamentare arriva a fine carriera a 350mila euro lordi annui; un documentarista a 237mila euro lordi annui; un commesso a 133mila euro; idem per un barbiere, un operaio, un autista e così via.
Una smacco, una sberla plateale a quei milioni di lavoratori che faticano ad arrivare a 20-30 mila euro lordi annui.
Ecco perchè la rivoluzione sui costi della politica deve davvero ancora incominciare.


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