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VATICANO SPA : Anche Papa Francesco fa soldi con la finanza. Lo Ior versa alla Santa Sede un dividendo da 36 milioni

Ultimo Aggiornamento: 19/06/2017 20:06
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Ecco come e perché la Chiesa incassa ogni anno una intera manovra finanziaria dello Stato italiano.
Ecco come e perché la Chiesa incassa ogni anno una intera manovra finanziaria dello Stato italiano. Per poi remargli contro

Anche il nuovo papa insiste nel tentativo di mettere il cappello sulla Costituzione europea e lancia periodicamente accorati appelli sulle “radici cristiane dell’Europa”, radici che a volte diventano “ebraico cristiane” per accattivarsi l’appoggio di chi ieri era demonizzato e oggi è corteggiato perché più potente di prima. Ma la Comunità europea, ingrata, risponde diffidando lo Stato italiano dal continuare a regalare privilegi economici e fiscali alla Chiesa del papa. Grazie all’Europa scopriamo che in Italia la Chiesa è leader in ben quattro settori economici: immobiliare, turismo, sanità ed educazione privata.
C’è di che allibire. Eppure da Oltretevere rispondono, come al solito piangendo miseria, accusando l’esistenza di un “complotto contro la Chiesa” e continuando a dichiarare che i soldi incamerati servono per opere di carità. Ma come stanno le cose? E le casse vaticane come stanno? Quanto incamerano all’anno dallo Stato italiano, tra sgravi fiscali, cioè soldi ai quali il nostro Stato rinuncia a favore del Vaticano, e soldi regalati direttamente alla “santa sede” e dintorni?

Come vedremo, la cifra totale è valutata – per esempio dal matematico Piergiorgio Odifreddi – in non meno di 11 miliardi di euro, pari ad oltre 20 mila miliardi annui di vecchie lire. Come sappiamo, ogni anno il nostro governo per salvare il bilancio statale dalla bancarotta impone una manovra finanziaria, cioè nuove tasse, per cifre dello stesso ordine di grandezza di quelle intascate dal Vaticano. Detto in altre parole: SE LA CHIESA PAGASSE LE TASSE GLI ITALIANI POTREBBERO PAGARNE MENO. I cattolici si riempiono la bocca e si stracciano le vesti in nome della “difesa della famiglia”, ma tanto strepito di fatto nasconde una realtà deprecabile: la Chiesa cattolica campa a sbafo proprio delle famiglie! Una parte consistente delle tasse di tutti noi, padri e madri di famiglia comprese, e non solo l’8 per mille volontario della dichiarazione dei redditi, finisce infatti in Vaticano. Come si è arrivati a tanto? Partiamo dall’inizio.

Come è noto, fatta l’unità d’Italia sfrattando i Borboni e il papa dai rispettivi Stati, la Chiesa rifiutò di riconoscerla e anzi proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica nazionale. Per superare questo ostracismo il governo italiano firmò nel 1871 la Legge delle Guarentigie, che riconosceva alla Chiesa il possesso dei palazzi del Vaticano e del Laterano e la residenza estiva di Castel Gandolfo. La legge inoltre istituì una serie di privilegi materiali a favore del papa e del clero compresa una cifra annuale di 3.225.000 lire dell’epoca, pari a una decina di milioni di euro di oggi. Il papa però non la incassò mai, onde evitare il riconoscimento formale dell’unità italiana.

Solo l’11 febbraio 1929, spianando così la strada al fascismo, il Vaticano firmò con Mussolini i Patti lateranensi, che fruttarono alla Chiesa un Trattato, una Convenzione finanziaria e un Concordato. Il Trattato riconobbe la sovranità della Chiesa e l’indipendenza dello Stato del Vaticano. La Convenzione economica elargì una ricompensa come risarcimento dei “danni ingenti” subiti con la “conquista” di Roma nel 1870. Venne così anche pagata l’intera cifra arretrata dei soldi della Legge delle guarentigie del 1871 non riscossi dal papa, cifra pari a 3.160.501.113 lire dell’epoca, pari a una decina di miliardi di euro odierni (ovvero 20.000 miliardi di lire prima dell’euro).

Venne anche stabilito, oltre al monopolio sui matrimoni e relativo rito, che lo Stato italiano avrebbe pagato lo stipendio, detto “la congrua”, a tutti i preti, che però non potevano far politica e, se nominati vescovi dal papa, dovevano avere il gradimento italiano e giurare fedeltà al regime. Fu così che Pio XI, imbottito di quattrini e privilegi, il 14 febbraio 1929 definì raggiante Mussolini “l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare”. Qualcosa di simile accadrà in seguito con un altro uomo della Provvidenza in Germania, un certo Adolfo Hitler. Le conseguenze, non solo italiane e tedesche, sono tragicamente note.

Craxi nel 1983 ha purtroppo rinnovato il Concordato, dopo sette tentativi andati a vuoto tra il ’67 e l’83, togliendo il divieto ai preti di fare politica e il giuramento di fedeltà dei vescovi allo Stato italiano. Il matrimonio è stato svincolato solo in parte dalla tutela ecclesiastica. La “congrua” mensile per i preti è stata sostituita con il finanziamento volontario dell’8 per mille sul gettito totale delle tasse da noi pagate con l’Irpef, novità che comporta per il Vaticano l’incasso di un miliardo di euro l’anno.

Nuovi privilegi sono stati regalati dal governo nelle mani di Berlusconi. Il Cavaliere nel 2003 ha creato un organico di 15.507 posti di insegnanti di religione (di fatto solo cattolica), fatti diventare in massa di ruolo scavalcando anche i diritti pregressi degli insegnati delle altre materie, ben più importanti per il progresso del Paese. Da notare che gli insegnanti di religione li nomina, e li può licenziare!, il vescovo locale e non il ministero della Pubblica istruzione.

Contrariamente a quanto sostiene la Chiesa per accattivarsi il pubblico, solo il 20% dell’8 per mille regalato volontariamente con l’Irpef viene speso in opere di carità. Per il resto, il 34% va per il sostentamento del clero e ben il 46% alle non meglio specificate “esigenze di culto”.

Da notare che la Chiesa incassa quasi tutto, per l’esattezza nel 2006 l’89,16 %, l’8 per mille che arriva dall’Irpef, nonostante solo un terzo dei contribuenti scelga di devolverlo allo Stato, alla Chiesa o ad altre religioni (da notare che le organizzazioni umanitarie o scientifiche hanno fatto la loro ignorata comparsa solo negli ultimissimi tempi). La legge infatti grazie all’articolo 37 è truffaldina: assegna alla maggioranza della minoranza che devolve l’8 per mille il potere di stabilire di fatto a chi dare il resto del ricco gruzzolo che il contribuente non indica a chi versare. E poiché la maggioranza (nel 2006 il 35,24%) di questa minoranza assegna l’obolo alla Chiesa, questa diventa l’asso piglia tutto: piglia cioè l’89,16%, pari a un miliardo di euro l’anno. Da notare che soli i valdesi, che ricevono appena l’1,30 della torta Irpef, presentano un rendiconto molto particolareggiato e danno tutto in opere assistenziali. La comunità ebraica riceve lo 0,39 %, i luterano lo 0,27 e via con gli altri spiccioli per gli altri questuanti.

Altri mille miliardi di lire li sborsa direttamente lo Stato con contributi tra i più disparati: nel 2004 ad esempio dai 470 milioni per stipendi agli insegnanti di religione ai 258 per le scuole cattoliche, 25 milioni per l’acqua consumata dal Vaticano (!), 20 milioni per una Università dell’Opus Dei e altri 44 per le cinque Università cattoliche, ecc., ecc. Più la gran parte del miliardo e mezzo di euro per la sanità privata, quasi tutta in mano a istituzioni cattoliche (specie nella Lombardia governata dal ciellino Roberto Formigoni).

Arriviamo così ogni anno ad almeno 3 mila miliardi di euro, ovvero 6 mila miliardi di vecchie lire, all’ombra del Cupolone, cioè della basilica di S. Pietro. Non so se nel conto abbiano calcolato anche i “rimborsi” del 10 % del costo della carta per la miriade di giornali, giornaletti e bollettini di riffa o di raffa facenti capo al mondo cattolico, giornali che prontamente si schierano con il papa e i vescovi quando criticano o attaccano la nostra vita politica.

Altri 6 miliardi di euro la Chiesa se li tiene grazie alla rinuncia dello Stato italiano a riscuotere le tasse in molte, troppe occasioni. Per lo stesso motivo i Comuni italiani perdono circa 2 miliardi e 250 milioni di euro l’anno. Arriviamo così al totale pazzesco di oltre 10 miliardi di euro, ovvero oltre 20 mila miliardi di lire! Una intera manovra finanziaria di proporzioni niente affatto trascurabili che dalle nostre tasche, cioè anche dalle tasche delle famose famiglie che la Chiesa dice di voler proteggere, finiscono ogni anno direttamente nelle sue casse.

Ogni dieci anni, si arriva a oltre 100 miliardi di euro, pari ad oltre 200 mila miliardi di lire… No comment. Mi limito a dire che questa Chiesa, così bene ingrassata con i nostri soldi regalati dal nostro Stato, è la stessa che poi accusa questo stesso Stato di sperpero delle nostre tasse per parassitismo e privilegio dei partiti, strizzando l’occhiolino alla proposta di sciopero fiscale lanciata da Umberto Bossi. Ed è la stessa Chiesa che, da noi pagata, attacca sempre più a testa bassa la laicità delle nostre istituzioni e quindi le basi della nostra libertà e coesistenza sociale. Insomma, siamo di fronte a quanto di più assurdo e imbarazzante, se non vergognoso, si possa immaginare.

Vi consiglio la lettura di un articolo di Luca Iezzi sul quotidiano "Repubblica" e uno di Pierluigi Franz su "La Stampa". Per facilitarvi le cose ve li riporto qui in basso.

LUCA IEZZI - L’Europa sospetta che l’Italia abbia un occhio di riguardo per “l’azienda Chiesa” e le conceda un regime fiscale agevolato rispetto ai concorrenti laici. La commissione Ue non mette in dubbio le prerogative temporali concesse alla Chiesa cattolica come la totale esenzione Irpef per i dipendenti del Vaticano. Il problema nasce per le attività economiche collegate a quella pastorale e in almeno quattro i settori la Chiesa è leader nazionale: immobiliare, turismo, sanità ed educazione privata. Visti gli sgravi su Ici, Ires, Irap il dubbio dell’aiuto di Stato assume consistenza.

Ici - Tutto nasce dall’immenso patrimonio immobiliare: impossibile definirlo con certezza, le stime dicono 100 mila fabbricati per 8-9 miliardi di euro di valore. Riducendo l’analisi a realtà più piccole, ma rappresentative, come Roma, l’elenco è impressionante: 550 tra istituti e conventi, 500 chiese, 250 scuole, 200 case generalizie 65 case di cura, 50 missioni, 43 collegi, 30 monasteri, 25 case di riposo e ospizi, 18 ospedali.

Sono quasi 2 mila gli enti religiosi residenti e risultano proprietari di circa 20 mila terreni e fabbricati. Va ricordato la legge istitutiva dell’Ici esentava i luoghi di culto e le loro pertinenze per cui alcune non sono mai state nemmeno segnalate ai comuni. Nel corso degli anni si è assistito a un braccio di ferro tra i sindaci e gli enti religiosi che tentavano di allargare a dismisura il perimetro delle esenzioni (alloggi di religiosi, sedi di fondazioni, opere pie, ospedali, università).

Nei contenziosi i Comuni avevano avuto il sostegno della corte di Cassazione che dal 2004 ha chiarito che se in un fabbricato si svolgeva un’attività commerciale doveva pagare l’imposta. Il governo Berlusconi aveva esentato tutti gli immobili posseduti da enti religiosi no profit scatenando le proteste (e un primo interesse dell’Ue). Ora la legge colpisce solo locali utilizzati “esclusivamente” per attività commerciali.

Una formulazione che lascia molto spazio al proprietario che autocertifica l’uso ai fini dell’Ici. La nuova formula secondo l’Ares fa perdere ai comuni 2,2 miliardi di euro. “Per Roma è meno di 20 milioni - stima Marco Causi assessore al Bilancio del comune - e conteranno molto gli accertamenti f caso per caso, i contenziosi non sono molti e con questo tipo di contribuenti cerchiamo soluzioni condivise”. Anche se il direttore di Roma Entrate Andrea Ferri spiega: “La normativa non aiuta ad evitare i contenziosi, ci sono casi di uso “promiscuo” commerciale e no-profit in cui l’attività a scopo di lucro è evidentemente preponderante”.

Ires - Conventi, palazzi e condomini sono diventati sedi di cliniche, scuole e soprattutto alberghi. Se l’attività è svolta da enti di assistenza e beneficenza l’Ires scende del 50% (esenzione totale se il reddito è generato da un immobile di proprietà diretta del Vaticano). Un bel vantaggio per chi opera nel turismo. E anche in questo caso Roma si è trasformata l’epicentro di un impero: il turismo religioso genera un fatturato di 5 miliardi l’anno con 40 milioni di presenze. In tutta Italia preti e suore gestiscono 250 mila posti letto.

L’attività è considerata meritoria tanto che il governo ha stanziato 10 milioni di euro per la promozione degli itinerari della fede. Con un ulteriore facilitazione: le organizzazioni no-profit collegate a entità religiose mantengono la qualifica a vita senza dover ogni anno presentare bilanci certificati e senza correre il rischio di vedersi negata dallo Stato la qualifica per inadempimenti formali o sostanziali (come appunto la generazione di profitti).

Irap - Infine sul fronte del costo del personale le retribuzioni corrisposte ai sacerdoti dalla Chiesa cattolica, non costituiscono base imponibile ai fini dell’Irap, ma per ognuno di loro le associazioni possono dedurre una quota nella determinazione del reddito d’impresa.

PIERLUIGI FRANZ - La «patata bollente» dell’esenzione Ici sugli immobili della Chiesa e degli enti ecclesiastici destinati in Italia ad attività commerciali remunerate (alberghi, pensionati, ostelli, centri vacanze, ristoranti, negozi, uffici, banche, cinema, cliniche, università, ecc.), cioè non direttamente legati al culto, denunciato dal sottosegretario all’Economia Paolo Cento (Verdi), è un classico «pasticcio all’italiana» per colpa di un avverbio maldestramente inserito nella legge. In ballo ci sono imposte sugli immobili per circa 700 milioni di euro (secondo l’Anci) o addirittura per circa 1 miliardo (secondo stime vaticane). Il mancato introito crea un buco nelle casse dei Comuni e, in parte, dello Stato.
Ora l’Italia rischia di essere sanzionata dall’Unione Europea per violazione della concorrenza. Difatti, per vanificare gli effetti di una clamorosa sentenza emessa nel 2004 dalla Cassazione che aveva dato torto alla Chiesa costringendola anche a pagare 5 anni di arretrati, il 2 dicembre 2005, ricorrendo al voto di fiducia, il governo Berlusconi, come chiedeva la Cei (Conferenza episcopale italiana), esenta dall’Ici le attività commerciali svolte da confessioni religiose e onlus. A parole il governo Prodi si prefigge di cancellare subito la riforma, ripristinando il pagamento dell’Ici sugli immobili degli enti ecclesiastici destinati allo svolgimento di attività commerciali. Ma l’art. 39 del decreto legge Bersani, scritto in perfetto «burocratese», lascia di fatto in vigore l’esenzione.

Tutto ruota attorno all’avverbio «esclusivamente», che trae in inganno persino il senatore Natale Ripamonti (Verdi), relatore di maggioranza. Nel suo documento presentato in Senato nel luglio 2006 afferma che «l’art. 39 ripristina il pagamento dell’Ici per gli enti ecclesiastici e le Onlus relativamente agli immobili in cui vengono svolte attività esclusivamente commerciali. La stima prudenziale è di 100 milioni di Euro».

Poi, però, Ripamonti si accorge che nella frase c’è qualcosa che non va e che occorre cancellare l’avverbio «esclusivamente». Presenta quindi un emendamento, altrimenti sarebbe rimasto tutto invariato. In pratica, per aggirare la nuova legge Bersani bastava che presso l’immobile in cui ha sede un’attività commerciale gestita della Chiesa vi fosse un luogo di culto cattolico per far sì che tale attività commerciale fosse interamente esentata dal pagamento dell’Ici. L’emendamento Ripamonti e quello di altri senatori finisce però nel cestino per il voto di fiducia a Palazzo Madama.
Successivamente torna alla carica il deputato della Rosa nel Pugno Maurizio Turco; ma il 18 novembre scorso una sua proposta viene bocciata a larghissima maggioranza (435 no e appena 29 sì). L’esponente della Rosa nel Pugno ricorda che l’Unione Europea nei mesi scorsi aveva indotto la Spagna ad adeguare il regime Iva che favoriva la Chiesa cattolica, e che la Corte di Giustizia Europea prevede che gli aiuti di Stato si applicano ad ogni soggetto che eserciti un’attività commerciale, senza privilegi per alcuno, vigendo il divieto di concorrenza sleale. Il verdetto di Bruxelles è atteso per fine anno.

Anche se non esiste un censimento preciso si può affermare che una parte significativa dei beni immobili di Roma è in mano alla Chiesa e ad enti ecclesiastici. Nella capitale gli istituti religiosi che non pagano l’Ici in base al Concordato ed alle successive leggi in vigore causano al Comune di Roma un mancato introito di circa 20 milioni di euro l’anno. Gran parte del Centro storico di Roma appartiene al Vaticano, compresi beni extraterritoriali: molti collegi e case generalizie, abitati ora da pochi religiosi, sono stati trasformati in alberghi a 4 stelle, residence e pensionati di lusso.
Dare un valore commerciale a questo «impero» è praticamente impossibile. Ci si può trovare indifferentemente di fronte a ettari di terreno edificabile o al palazzetto storico pronto alla ristrutturazione. Nel 2003 su circa 100 mila immobili appartenenti in Italia alla Chiesa e ad enti ecclesiastici si contavano nel campo dell’istruzione 8.784 scuole, suddivise in 6.228 materne, 1.280 elementari, 1.136 secondarie e 135 universitarie o parauniversitarie, 5 grandi università oltre a 2.300 musei e biblioteche.

Poi 4.712 centri di assistenza medica, suddivisi in 1.853 ospedali e case di cura, 10 grandi ospedali, nonché 111 ospedali di media dimensione, 1.669 centri di «difesa della vita e della famiglia», 534 consultori familiari, 399 nidi d’infanzia, 136 ambulatori e dispensari e 111 ospedali, più 674 di altro genere. Il tutto per un valore globale di alcune centinaia di miliardi di euro. Infine, 118 sedi vescovili, 12.314 parrocchie, quasi altrettanti oratori, 360 case generalizie di ordini religiosi, un migliaio di conventi maschili o femminili e 504 seminari. Oltre agli attuali benefici fiscali sull’Ici, la Chiesa beneficia di circa 930 milioni di euro l’anno grazie all’8 per mille (dal 2007 c’è anche la novità dell’ulteriore 5 per mille).
Vanno poi aggiunte le donazioni liberali dei contribuenti a favore della Chiesa, detraibili dalle denunce dei redditi fino a circa 1000 euro, nonché l’esenzione totale sui lasciti testamentari di beni mobili ed immobili da parte dei fedeli. In base ai Patti Lateranensi sono esenti da Irpef gli stipendi dei dipendenti della Santa Sede e le loro pensioni. Per la Chiesa sono poi previsti sconti sull’imposta Ires, nonché esenzioni Iva sul gas metano e anche sulla fornitura dell’acqua, tanto che è ancora aperto un contenzioso di circa 30 milioni di euro con l’Acea.

nicotri.blogautore.espresso.repubblica.it/

di Pino Nicotri, giornalista dell'Espresso

www.youtube.com/watch?v=Il4fn2DeXn8

www.homolaicus.com/storia/contemporanea/evasione_fiscale_vati...
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Durante il week end la pagina Facebook 'Vaticano pagaci tu la manovra fiscale' ha superato di slancio le centodiecimila adesioni. Un "partito" che tuttavia non trova sponde o quasi nella politica: di tagliare i privilegi della Chiesa, ad esempio, non c'è traccia nella contromanovra che il Pd sta studiando in questi giorni. «Quello dei soldi Oltre Tevere è un tabù che nessuno ha intenzione di affrontare», scuote la testa Mario Staderini, segretario dei Radicali, che ha per primo lanciato la proposta di eliminare le esenzioni fiscali di cui godono gli enti ecclesiastici. «Si potrebbero recuperare 3 miliardi di euro all'anno senza neppure rivedere il Concordato», sostiene.

Ha ragione? Quantificare con precisione il "costo" della Chiesa Cattolica per lo Stato italiano è un'operazione quasi impossibile, che in parte si basa su dati certi e in altri casi solo su stime.

Se è infatti relativamente facile stabilire quali sono le spese principali a carico dello Stato italiano, trattandosi di fondi che restano nel bilancio, molto più complesso è stabilire quali sono i mancati introiti derivanti dalle agevolazioni fiscali cui hanno diritto gli enti ecclesiastici.

Per fare un po' di ordine è meglio dividere i capitoli.

Iniziamo analizzando le spese principali che lo Stato si accolla per gli enti ecclesiastici. In questa categoria si possono far rientrare i prelievi dell'Irpef diretti alla Conferenza Episcopale Italiana (l'otto per mille), i fondi per gli stipendi dei professori di religione cattolica nelle scuole, gli stipendi dei cappellani che svolgono funzioni per lo Stato italiano, i finanziamenti alle scuole paritarie e alle università private che in buona parte ruotano attorno alla Chiesa. Un pacchetto da circa 2,5-3 miliardi di euro l'anno, solo per lo Stato centrale. Altri capitoli di spesa, come la sanità, ricadono infatti nei bilanci regionali e non rientrano in questi conteggi.

La prima voce di spesa per lo Stato, e una delle più contestate, è l'otto per mille, ovvero la percentuale Irpef che il cittadino può destinare ad un credo religioso o lasciare allo Stato Italiano. Solo per la Chiesa Cattolica l'otto per mille ha fruttato nel 2011 la cifra record di un miliardo e 118 milioni di euro, circa l'85% dell'intera torta.

A essere contestati nell'otto per mille sono almeno tre aspetti: il metodo di ripartizione, la "mancata concorrenza" e l'ammontare dell'aliquota Irpef. A differenza delle altre tasse infatti, l'otto per mille di ogni contribuente non viene destinato al credo da lui scelto: la firma di ogni cittadino vale come un voto e influisce sulla ripartizione complessiva dei fondi. In questo modo, anche se non si firma, la destinazione dei fondi viene stabilita solo dai "votanti".

Questo meccanismo finisce per avvantaggiare la Chiesa Cattolica che, conquistando la maggioranza delle firme, riceve una grossa fetta anche dei finanziamenti senza destinazione. Il sistema è stato molto contestato dai Radicali e da associazioni come lo Uaar, che segnalano il completo monopolio cattolico per quanto riguarda gli spot pubblicitari: le confessioni più piccole non possono permettersi le campagne milionarie, mentre lo Stato non investe un centesimo sull'argomento, lasciando nei fatti il campo libero alla Chiesa Cattolica.

Un aspetto sottovalutato dell'otto per mille è però l'ammontare dell'aliquota di prelievo, che secondo la legge può essere ridefinita da una apposita commissione ogni tre anni. L'articolo 49 della legge 222/85, che ha istituto l'otto per mille, prevede che "Al termine di ogni triennio successivo al 1989, un'apposita commissione paritetica, nominata dall'autorità governativa e dalla Conferenza episcopale italiana, procede alla revisione dell'importo deducibile di cui all'articolo 46 e alla valutazione del gettito della quota IRPEF di cui all'articolo 47, al fine di predisporre eventuali modifiche".

Si tratta di un sistema di verifica pensato al momento del passaggio dall'assegno di Congrua (con cui lo Stato pagava fino agli anni ?€˜80 lo stipendio dei preti) al nuovo regime, che permette di rivedere i prelievi se questi si rivelano troppo bassi o troppo alti. "Abbiamo chiesto di accedere agli atti della commissione incaricata di valutare l'aliquota – spiega Mario Staderini – ma sulle relazioni è stato apposto il segreto di Stato, e anche il Tar del Lazio ha confermato che quei documenti devono restare riservati".

II

espresso.repubblica.it/dettaglio/quanto-paghiamo-per-la-chiesa/2158813//1

(22 agosto 2011)

Se le casse dello Stato piangono, il gettito dell'otto per mille per la Chiesa è invece cresciuto di cinque volte in venti anni, passando dai 210 milioni dei primi anni novanta al miliardo e 100 di oggi. Aumentando il gettito è cambiata radicalmente anche la destinazione di questi capitali: oggi un terzo viene usato per lo stipendio dei religiosi, circa un quinto per interventi caritativi, e poco meno della metà per "esigenze di culto", una voce che al suo interno prevede anche la costruzione di nuove chiese (125 milioni di euro solo nel 2011).

L'aumento del gettito dell'otto per mille degli ultimi anni è stato così importante che ha permesso alla Chiesa di realizzare una serie di accantonamenti (55 milioni nel 2011, 30 milioni nel 2010): un piccolo tesoretto per futuri usi insomma.

La seconda voce di spesa a vantaggio della Chiesa Cattolica sono gli stipendi degli insegnanti di religione delle scuole, che sono più di 25 mila (circa la metà di ruolo) e costano una cifra superiore agli 800 milioni di euro l'anno.

La posizione della Cei sull'argomento, riportata in varie comunicazioni ogni volta che la questione viene rilanciata, è che questi stipendi non vanno alla Chiesa, ma agli insegnanti che per oltre l'80 per cento sono laici (l'87 per cento nel 2009/2010 - Leggi le relazioni in proposito 1 | 2 | 3).
In realtà, il controllo dei vescovi su questa voce di spesa non è da sottovalutare, visto che per ottenere l'idoneità all'insegnamento serve proprio un nulla osta del religioso. Il Canone 805 del Codice canonico prevede infatti che "E' diritto dell'Ordinario del luogo per la propria diocesi di nominare o di approvare gli insegnanti di religione, e parimenti, se lo richiedano motivi di religione o di costumi, di rimuoverli oppure di esigere che siano rimossi".

In altre parole, gli insegnanti di religione sono gli unici a non essere scelti sulla base di graduatorie di Stato, ma sono di fatto assunti in ogni diocesi dal vescovo locale. Assunti dalla Chiesa ma pagati dallo Stato, insomma. Inoltre, e i casi di cronaca lo hanno confermato, chi divorzia può essere licenziato da un anno all'altro.

Oltre agli stipendi degli insegnanti, lo Stato si accolla direttamente anche una parte degli stipendi dei religiosi, quando questo svolgono compiti come il cappellano militare, nelle carceri o il già citato insegnante di scuola. Secondo la Cei le "remunerazioni proprie dei sacerdoti" valgono 112 milioni di euro l'anno. Una cifra che non si può però sommare alle altre voci, poiché in parte già calcolata tra gli stipendi degli insegnanti (che nell'11% dei casi sono sacerdoti o religiosi).

Il capitolo dell'insegnamento apre un altro frangente di spesa per lo Stato, ovvero il finanziamento alle scuole paritarie (private). Queste strutture sono in buona parte gestite da enti ecclesiastici, anche se esistono non pochi istituti laici nel nostro paese.

Nell'ultima finanziaria la spesa prevista per il finanziamento alle paritarie ammonta complessivamente a poco meno di 500 milioni di euro, in calo rispetto all'anno precedente ma rimpinguata dopo una prima pesante sforbiciata. Nonostante le polemiche legate al finanziamento di queste strutture (che l'articolo 33 della Costituzione vuole "senza oneri per lo Stato"), uno studio dell'associazione dei genitori delle scuole cattoliche, ripreso anche dal ministro Gelmini, sostiene come queste scuole consentano un risparmio per lo Stato quantificato in circa sei miliardi di euro. La complessità della materia e le sue tante sfaccettature non possono comunque essere esaurite in poche righe.

Alle fonti di finanziamento citate si devono poi aggiungere altre voci, non sempre facilmente rintracciabili nei documenti ufficiali. Un capitolo tutto suo lo merita ad esempio la fornitura dell'acqua alla Città del Vaticano, interamente a carico dello Stato italiano. L'articolo 6 dei patti Lateranensi del 1929 recita infatti che "L'Italia provvederà, a mezzo degli accordi occorrenti con gli enti interessati, che alla Città del Vaticano sia assicurata un'adeguata dotazione di acque in proprietà".

Su queste due righe sono state avanzate diverse interpretazioni, con strascichi che arrivano fino ai giorni nostri. Nonostante l'opposizione dei radicali, secondo cui l'adeguata dotazione di acqua significa che bisogna far arrivare i tubi al Vaticano e nient'altro, l'interpretazione vincente è che i costi dell'acqua siano a carico dello Stato, ma un discorso diverso vale per la depurazione e la gestione degli scarichi.

La questione è esplosa nel 1998, quando la romana Acea si è quotata in borsa ed ha chiesto al Vaticano di pagare una bolletta da 25 milioni di euro che, dopo diverse peripezie, è stata invece pagata dallo Stato.

Proprio lo Stato italiano dal 2005 versa anche 4 milioni di euro l'anno all'Acea per la depurazione, da sommarsi al costo dell'acqua stessa. Il costo totale della fornitura non è però esente da equivoci e la sua cifra complessiva tra depurazione, costo dell'acqua e dello smaltimento è finita di recente al centro di una polemica alimentata da una "gola profonda" del Pdl che sostiene, senza però presentare la documentazione, che questi costi ammontino a circa 50 milioni di euro l'anno.

Dopo aver passato in rassegna le voci di spesa dello Stato per il finanziamento della Chiesa Cattolica e delle sue attività, bisogna andare al capitolo dei mancati introiti, legati ai regimi fiscali privilegiati a cui hanno diritto alcuni stabili e fabbricati. Come affermato in precedenza, tanto le spese sono note ed evidenti nel bilancio dello Stato, quanto l'entità delle detrazioni è frutto di stime molto meno certe. Per chiarezza è quindi meglio dividere ogni voce e chiarire i riferimenti normativi, le critiche e il loro presunto costo per le casse statali.

Le due voci principali di detrazione fiscale a cui ha diritto la Chiesa, non in forma esclusiva, sono l'esenzione dall'Ici e la riduzione del 50 per cento dell'Ires, l'imposta sul reddito delle persone giuridiche (le società). Questi privilegi sono anche finiti nel mirino della Commissione Europea che, dopo una denuncia dei deputati radicali, ha aperto nei confronti dell'Italia un procedimento per verificare se si tratta di aiuto di Stato o meno e il cui esito finale è atteso entro il 2012.

L'abbattimento del 50 per cento dell'Ires si applica agli enti di assistenza sociale e con fini di beneficenza ed istruzione, anche quando questi svolgono in parte attività commerciale: in questo caso però la normativa vuole che vengano distinte le fonti di reddito e sulla parte commerciale venga pagata l'intera tassa. Trattandosi inoltre di un'agevolazione nata negli anni '50 (e poi rivista varie volte), la Commissione europea ha deciso di farla rientrare tra gli aiuti di Stato esistenti, che possono essere annullati ma per cui non può esser richiesto il rimborso degli "arretrati".

Per quanto riguarda l'Ici (l'imposta comunale sugli immobili) la questione è più complessa e prevede diversi livelli. Innanzitutto la legge prevede l'esenzione totale per i luoghi di culto, ma la parte più contestata riguarda l'esenzione per le attività commerciali svolte nei locali di enti non commerciali (come quelli religiosi). Un'interpretazione della Cassazione del 2004 (la legge risale al 1992), giudicata troppo restrittiva dagli organi della Cei, ha stabilito come potessero accedere all'esenzione solo le strutture che non svolgessero alcuna attività commerciale: in poche parole l'Ici doveva essere corrisposta da tutti gli istituti che prevedevano un pagamento per le loro prestazioni, fossero esse mense per i poveri,alberghi per pellegrini o cliniche private. L'anno successivo, una legge del Governo Berlusconi ha cambiato le carte in tavola, stabilendo che l'esenzione Ici valesse anche in caso di attività commerciali: un regalo alla Chiesa che ha fatto scattare subito la denuncia alla Commissione europea per i suoi effetti sulla concorrenza.

A mettere una pezza alla situazione ci ha pensato il governo Prodi nel 2006, con l'introduzione di una nuova interpretazione della legge che prevede l'esenzione dell'Ici solo per chi svolge attività "non esclusivamente commerciale". Dalla diversa interpretazione di queste tre parole nascono buona parte degli attuali contenziosi tra chi sostiene che basti una cappella in un albergo per non pagare l'Ici e la Cei, che sostiene invece la bontà della norma e definisce "mistificazioni" gli articoli che affermano il contrario. Tanto per far capire quanto l'argomento sia caldo, un editoriale di Avvenire (il quotidiano della Cei) è tornato sull'argomento il 18 agosto scorso.

Delle detrazioni dalle tasse italiane usufruiscono poi tutti gli stabili di Città del Vaticano che godono dell'extra-territorialità e previsti dal Concordato. La somma di queste esenzioni, secondo una stima fornita dall'Anci e segnalata nel libro "La Questua" di Curzio Maltese, valeva nel 2007 tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro l'anno. Da quanto è emerso invece in un'interrogazione fatta dai radicali al Comune di Roma pochi anni fa, il costo dell'esenzione Ici per la sola capitale è di circa 25 milioni di euro l'anno.

Altra tassa risparmiate alla Chiesa, o sarebbe meglio dire ai suoi "dipendenti", è l'esenzione dell'Irpef per tutti i lavoratori della Santa Sede e della Città del Vaticano: almeno duemila persone tra giornali, radio, tribunali ecclesiastici, segreterie e congregazioni. Con il Concordato del 1984 è stato inoltre stabilita la possibilità di detrarre dalla dichiarazione dei redditi le donazioni fino alle vecchie due milioni di lire (poco meno di mille euro).

Il conto complessivo delle detrazioni, almeno sulla base delle stime, supera quindi agilmente i 3 miliardi di euro. Ma la politica non ci sente: «Togliere i fondi alla Chiesa italiana significa togliere il pane agli affamati», ha commentato Rocco Buttiglione dell'Udc. Compatto nella difesa dei privilegi ecclesiastici il Pdl. Poche le voci dissonanti nel Pd, partito la cui presidente Rosi Bindi ha chiuso la porta a ogni ipotesi di Pd di tassazione degli immobili del Vaticano, perché«la Chiesa è una grande ricchezza per la società italiana e le opere di carità della chiesa sono ancora più importanti per la crisi economica che sta mordendo le famiglie». Amen.

III

CHIESA, LA BEFFA DELL'8 PER MILLE

espresso.repubblica.it/dettaglio/chiesa-la-beffa-dell8-per-mille/2159264

Dei 144 milioni che gli italiani destinano allo Stato, più di 50 finiscono alla manutenzione di parrocchie e basiliche. Un regalo che si assomma alla 'devoluzione proporzionale' che porta nelle casse del Vaticano l'87 per cento del gettito con il 34,5 per cento delle firme (29 agosto 2011).

In un modo o nell'altro, l'otto per mille degli italiani finisce quasi sempre alla Chiesa Cattolica. Se non bastasse il sistema proporzionale di distribuzione dei fondi, che finisce per dirottare l'87,2 per cento del gettito direttamente nelle casse della Conferenza episcopale italiana (anche se quelli che scelgono la Chiesa sono il 34,5) ci pensa poi lo Stato a girare un altro 3-4% alla Cei, prelevandolo direttamente dalla sua quota.

Basta infatti andare a guardare la destinazione dei fondi gestiti dallo Stato per accorgersi che almeno un terzo della torta finisce comunque per avvantaggiare il Vaticano: una cifra che solo nel 2010 oscillava tra i 50 e i 60 milioni di euro sul totale di 144 milioni a disposizione dell'otto per mille "laico".

Questo finanziamento aggiuntivo si perpetua da anni attraverso l'opera di restauro e conservazione di chiese, monasteri e basiliche. Fatti due conti, circa un terzo di tutti i fondi dell'otto per mille destinati allo Stato vengono quindi impiegati nella ristrutturazione dei luoghi di culto presenti nel paese. La fatica di firmare per lo Stato Italiano il proprio modulo è quindi sprecata.

Andando a sfogliare il Decreto della Presidenza del Consiglio pubblicato lo scorso dicembre (qui), si può notare come dei 343 progetti finanziati, 262 riguardano i beni culturali e la metà di questi interessano chiese e parrocchie.

Scorrendo l'elenco si possono vedere il milione e mezzo di euro speso per la Basilica di Sant'Andrea a Mantova, il milione e 800mila euro per il restauro della Chiesa dei santi Vittore e Carlo a Genova, il milione e 200mila euro per san Raffaele a Pozzuoli e il milione e 400mila euro per le suore Benedettine di Lecce, ma non mancano gli interventi da 100mila e persino 50mila euro. Una lista lunga 52 pagine, in gran parte con nomi di parrocchie e chiese della provincia italiana beneficiate dall'otto per mille destinato allo Stato, almeno sulla carta.

Ma le buone notizie per la Cei non finiscono qui. Dopo anni di gestioni folli dell'otto per mille statale, di volta in volta razziato dalle finanziarie e prosciugato per missioni di pace o per aggiustatine di bilancio, lo scorso anno le Commissioni bilancio del Parlamento hanno approvato una legge che rimettesse ordine sull'uso di questi fondi, "costringendo" i Governi ad utilizzarli per il contrasto alla fame nel mondo, alle calamità naturali, per l'assistenza ai rifugiati e per la conservazione dei beni culturali. Grazie a questa necessaria modifica, la quota dell'otto per mille in mano allo Stato per finanziare interventi sociali è cresciuta a dismisura, arrivando a 144 milioni e triplicandosi rispetto ai 43 milioni del 2009 (qui) e moltiplicandosi di 50 volte rispetto ai miseri 3 milioni e mezzo del 2008 (qui). Un vero e proprio tesoretto che poteva andare alle missioni del terzo mondo o essere usato per combattere le calamità naturali, ma che per oltre 100 milioni è rimasto in Italia ed è stato speso in restauri.

Viste le cifre in gioco sorge però una domanda: non potrebbe essere la Cei, con i proventi del suo otto per mille, quello destinato alla Chiesa Cattolica, a sobbarcarsi il costo delle ristrutturazioni dei beni ecclesiastici? Cercando la verità nei bilanci, la risposta è certamente sì. Il solo gettito dell'otto per mille arrivato nelle casse dei vescovi nel 2011 ammonta infatti a 1 miliardo e 118 milioni di euro, di cui 190 sono stati destinati all'edilizia di culto (qui). Di questi, 65 milioni sono destinati alle ristrutturazioni ("tutela beni culturali ecclesiastici"): una cifra quasi identica a quella investita per lo stesso scopo dallo Stato.

Anche non volendo andare ad intaccare il fondo di ben 125 milioni destinato alla costruzione di nuove chiese in Italia, la Cei potrebbe limitarsi a investire nella ristrutturazione una parte di quei 55 milioni che nell'ultimo bilancio sono stati "accantonati", cioè messi da parte per future esigenze. Ma finché ci pensa lo Stato a pagare i restauri, perché spendere di tasca propria?

© RIPRODUZIONE RISERVATA

www.homolaicus.com/storia/contemporanea/finanza_vaticana2.htm
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Scontro governo-Ue sull'Imu della Chiesa
"L'Italia incassi 1,2 miliardi di arretrati"
Bruxelles vuole che l'esecutivo incassi sei anni di imposte sugli immobili mai pagate. E boccia come insufficiente l'introduzione dell'obbligo al pagamento a partire dal 2013. Ma ottenere dai comuni gli elenchi dei soggetti interessati potrebbe non essere semplice. Il rischio è che paghi lo Stato
Lo leggo dopo
L'Ue chiede al governo italiano di essere più incisivo nella riscossione delle imposte sugli immobili
MILANO - Secondo quanto riporta il quotidiano MF-Milano Finanza tra il governo italiano e la Commissione europea sarebbe in corso un braccio di ferro sul recupero delle imposte sugli immobili non pagate da Chiesa, partiti, sindacati e fondazioni dal 2006 a oggi. Bruxelles ha aperto un fascicolo sulla vicenda e il pagamento delle imposte eluse negli ultimi anni sarebbe necessario per ristabilire la parità di condizioni tra i soggetti. Sull'entità di questi arretrati le stime differiscono in maniera anche sensibile: stando al ministero del Tesoro si tratta di circa 100 milioni di euro all'anno, ma per il presidente dell'Anci Graziano Delrio gli arretrati ammontano al doppio, 200 milioni. Ovvero si arriverebbe a 1,2 miliardi di euro per i sei anni trascorsi da quando è entrata in vigore la legge che stabilisce l'obbligo di pagamento per gli spazi utilizzati per fini commerciali.

In questa ottica l'obbligo al pagamento deciso dal governo a partire dal 2013 verrebbe considerato insufficiente da Bruxelles. Una sorta di condono mascherato sulle inadempienze degli anni passati. Il governo potrebbe però incontrare difficoltà a ottenere dai comuni gli elenchi dei soggetti a cui far pagare gli arretrati. Un problema che, sommato alla tradizionale prudenza che contraddistingue i rapporti tra Stato e Chiesa, potrebbe spingere l'esecutivo a pagare di tasca propria, e di quindi con i soldi di tutti i contribuenti, una sanzione alla Commissione europea, piuttosto che andare a battere cassa presso chi avrebbe già dovuto pagare dal 2006.

www.repubblica.it/economia/2012/10/23/news/scontro_governo-ue_sull_imu_della_chiesa_l_italia_incassi_1_2_miliardi_di_arretrati-4...
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La struttura segreta del Vaticano
Immobili a Londra con i soldi di Mussolini
Una società off-shore custodisce un patrimonio da circa 650 milioni di euro. Per conto della Santa Sede, che ha raggranellato prestigiosi locali ed edifici nella capitale britannica. Grazie ai soldi che Mussolini diede al papato con i Patti Lateranensi
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI
Lo leggo dopo

LONDRA - A chi appartiene il locale che ospita la gioielleria Bulgari a Bond street, più esclusiva via dello shopping nella capitale britannica? E di chi è l'edificio in cui ha sede la Altium Capital, una delle più ricche banche di investimenti di Londra, all'angolo super chic tra St. James Square e Pall Mall, la strada dei club per gentiluomini? La risposta alle due domande è la stessa: il proprietario è il Vaticano. Ma nessuno lo sa, perché i due investimenti fanno parte di un segretissimo impero immobiliare costruito nel corso del tempo dalla Santa Sede, attualmente nascosto dietro un'anonima società off-shore che rifiuta di identificare il vero possessore di un portfolio da 500 milioni di sterline, circa 650 milioni di euro. E come è nata questa attività commerciale dello Stato della Chiesa? Con i soldi che Benito Mussolini diede in contanti al papato, in cambio del riconoscimento del suo regime fascista, nel 1929, con i Patti Lateranensi.

A rivelare questo storia è il Guardian, con uno scoop che oggi occupa l'intera terza pagina. Il quotidiano londinese ha messo tre reporter sulle tracce di questo tesoro immobiliare del Vaticano ed è rimasto sorpreso, nel corso della sua inchiesta, dallo sforzo fatto dalla Santa Sede per mantenere l'assoluta segretezza sui suoi legami con la British Grolux Investment Ltd, la società formalmente titolare di tale cospicuo investimento internazionale. Due autorevoli banchieri inglesi, entrambi cattolici, John Varley e Robin Herbert, hanno rifiutato di divulgare alcunché e di rispondere alle domande del giornale in merito al vero intestatario della società.

Ma il Guardian è riuscito a scoprirlo lo stesso attraverso ricerche negli archivi di Stato, da cui è emerso non solo il legame con il Vaticano ma anche una storia più torbida che affonda nel passato. Il controllo della società inglese è di un'altra società, chiamata Profima, con sede presso la banca JP Morgan a New York e formata in Svizzera. I documenti d'archivio rivelano che la Profima appartiene al Vaticano sin dalla seconda guerra mondiale, quando i servizi segreti britannici la accusarono di "attività contrarie agli interessi degli Alleati". In particolare le accuse erano rivolte al finanziere del papa, Bernardino Nogara, l'uomo che aveva preso il controllo di un capitale di 65 milioni di euro (al valore attuale) ottenuto dalla Santa Sede in contanti, da parte di Mussolini, come contraccambio per il riconoscimento dello stato fascista, fin dai primi anni Trenta. Il Guardian ha chiesto commenti sulle sue rivelazioni all'ufficio del Nunzio Apostolico a Londra, ma ha ottenuto soltanto un "no comment" da un portavoce.

(22 gennaio 2013)


www.repubblica.it/economia/2013/01/22/news/vaticano_impero_immobiliare_segreto_a_londra-5...
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Cardinali milionari: la mappa delle proprietà private del clero
Appartamenti, ville, vigneti, uliveti, boschi. I risultati di mesi di ricerche catastali sui patrimoni personali di oltre cento alti prelati: una collezione di fortune private (regolarmente dichiarate al fisco), alla faccia dell'umiltà e alla modestia di Papa Francesco
DI PAOLO BIONDANI
15 luglio 2014
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Cardinali milionari: la mappa delle proprietà private del clero
Beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli, insegnava Gesù di Nazareth nel Discorso della Montagna. Dopo duemila anni di predicazioni nel nome di Cristo, però, sulla terra continuano a passarsela meglio i ricchi. Non solo i laici, agnostici o miscredenti. Anche tra i cattolici più devoti c’è chi ostenta patrimoni invidiabili. E perfino tra gli alti prelati di Santa Romana Chiesa ora spunta una specie di club dei milionari: cardinali e vescovi che sono proprietari di grandi fortune private. Palazzi, appartamenti, monolocali, fabbricati rurali, capannoni, cantine, fattorie, agrumeti, uliveti, frutteti, boschi e pascoli sterminati.

Si tratta di ricchezze assolutamente lecite, spesso frutto di lasciti testamentari o eredità familiari, che non si possono in alcun modo accostare alle fortune illegali accumulate da quelle pecore nere che, ieri come oggi, non sono mai mancate neppure nelle greggi cattoliche. Dopo l’avvento di Papa Bergoglio, il pontefice che ha scelto di ispirarsi già dal nome a San Francesco d’Assisi e che non perde occasione per richiamarsi alla «Chiesa dei poveri», ammonire che «San Pietro non aveva il conto in banca», scagliarsi contro «il peccato della corruzione» e «certi preti untuosi, sontuosi e presuntuosi» che sfoggiano «macchine di lusso», però, anche in Vaticano c’è chi comincia a chiedersi quante ricchezze personali possiedano i prelati più potenti. Chi riuscirà a passare dall’evangelica cruna dell’ago?

A regalare le prime risposte documentate è il nuovo libro-inchiesta di Mario Guarino (“Vaticash”, ed. Koinè), il giornalista investigativo che più di vent’anni fa svelò molti segreti di Silvio Berlusconi quando era solo “il signor tv”. Dopo aver ripercorso i vecchi e nuovi intrighi ecclesiastici, dall’Ambrosiano allo Ior, dalle collusioni mafiose alle cricche edilizie e finanziarie, Guarino espone i risultati di mesi di ricerche catastali sui patrimoni personali di oltre cento alti prelati, con dati aggiornati all’aprile 2014. Una collezione di fortune private regolarmente dichiarate al fisco, che non ha nulla a che fare, dunque, con le polemiche sulle leggi di favore per le istituzioni religiose o sull’esenzione dalle tasse riservata ai beni degli enti ecclesiastici. Nessuno scandalo giudiziario, insomma: solo un viaggio ragionato, tra citazioni dei vangeli e appelli all’umiltà e alla modestia di Papa Francesco, alla scoperta delle fortune immobiliari, schedate nei pubblici registri del catasto italiano, che fanno capo alle persone fisiche di cardinali e vescovi. Un’inchiesta giornalistica che sfata e riserva parecchie sorprese.

Monsignor Liberio Andreatta è da molti anni il responsabile dell’Opera romana pellegrinaggi (Orp), l’agenzia vaticana per il turismo religioso, che organizza i viaggi di milioni di pellegrini verso mete di culto come Assisi, Fatima o Medjugorje. Nato nel 1941 in provincia di Treviso, il religioso proviene da una famiglia molto in vista e oggi risulta titolare di un notevolissimo patrimonio personale: a suo nome, il catasto italiano rilascia ben 38 fogli di visure immobiliari. Monsignor Andreatta infatti possiede a titolo personale svariate centinaia di ettari di terreni, coltivati a uliveti, frutteti, boschi da taglio e castagneti, sparsi tra la Maremma e le campagne di Treviso. Nella provincia natia, precisamente a Crespano del Grappa, possiede anche un edificio di 1432 metri quadrati e, insieme ad alcuni parenti, ha altri tre immobili in usufrutto. Inoltre risulta proprietario di una serie di fabbricati rurali tra Fibbianello e Semproniano, sulle colline toscane attorno a Saturnia. Stando ai registri catastali, ha accresciuto il suo patrimonio anche in tempi recenti, acquistando tra il 2008 e il 2011 altre centinaia di ettari di uliveti in Maremma.

Grande possidente, specializzato però nell’edilizia residenziale, è anche l’attuale arcivescovo di Palermo, il cardinale Paolo Romeo, nato nel 1938 ad Acireale: nella sua cittadina d’origine risulta aver acquistato, dal 1995 al 2013, otto appartamenti e quattro monolocali in via Felice Paradiso, oltre ad alcune abitazioni per complessivi 22 vani e altri due monolocali in corso Italia. Le visure catastali, inoltre, attribuiscono all’arcivescovo la proprietà di altri nove appartamenti (più un monolocale) in otto diversi stabili in via Giuliani; tre abitazioni e due monolocali in via Kennedy; altri cinque appartamenti (il più grande di 15 vani) in via San Carlo; un altro edificio residenziale e tre monolocali in altre strade sempre di Acireale, dove è intestatario di un ulteriore appartamento in via Miracoli. Nella stesso comune siciliano, il cardinale possiede anche decine di ettari di terreni seminativi, oltre a un vastissimo agrumeto che però è in comproprietà con alcuni familiari.

Più diversificato il patrimonio personale del cardinale Camillo Ruini: l’ex presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), nato a Sassuolo nel 1931, è proprietario di tre appartamenti e tre monolocali a Modena, in via Fratelli Rosselli. A Reggio Emilia possiede un ulteriore appartamento, più un monolocale e un seminterrato. Insieme a una sorella, inoltre, è cointestatario di un’abitazione (con pertinenze immobiliari) nella natia Sassuolo. Il catasto infine attribuisce all’ex rappresentante dei vescovi italiani la proprietà di altri tre appartamenti e un monolocale a Verona.

Il cardinale Fiorenzo Angelini, nato a Roma nel 1916, storico sponsor di Giulio Andreotti ed ex responsabile della sanità vaticana, si accontenta invece della proprietà di due appartamenti su due piani a Roma, per complessivi 16,5 vani, in via Anneo Lucano, zona Monte Mario.

Molto meglio se la passano alcuni prelati che hanno assunto cariche importanti negli ultimi anni. L’arcivescovo ciellino Ettore Balestrero, nato a Genova nel 1966, che si schierò al fianco del cardinale Tarcisio Bertone nella contesa sullo Ior, è un poliglotta che ha girato il mondo e ora è nunzio apostolico in Colombia. Eppure conserva numerose proprietà in Italia, tra cui una residenza di dieci vani a Roma, in via Lucio Afranio, alle spalle dell’Hotel Hilton Cavalieri, altre quattro unità immobiliari a Genova tra le vie Tassorelli e Pirandello (la più grande è di 9,5 vani) e un appartamento in nuda proprietà a Stazzano, nell’Alessandrino, dove però possiede anche molti terreni agricoli e boschi da taglio.

Monsignor Carlo Maria Viganò, nato a Varese nel 1941, che sotto papa Ratzinger si era conquistato la fama di incorruttibile moralizzatore, proviene da una famiglia più che benestante: insieme a un familiare è comproprietario di circa mille ettari di terreni a Cassina de’ Pecchi, vicino a Milano. Nello stesso comune possiede inoltre quattro appartamenti e tre fabbricati.

Anche il vescovo Giorgio Corbellini, nato a Travo (Piacenza) nel 1947, attuale presidente dell’Autorità d’informazione finanziaria (Aif, cioè l’antiriciclaggio) dopo le dimissioni di Attilio Nicora, appartiene a una famiglia ricca. Con alcuni parenti è comproprietario, sulle colline di Bettola (Piacenza), di circa 500 ettari di boschi, due fabbricati e altre centinaia di ettari di pascoli e terreni seminativi. Inoltre possiede tre appartamenti e un fabbricato nel suo paese natale.

Il cardinale Domenico Calcagno, nato a Parodi Ligure (Alessandria) nel 1943, ha dovuto lasciare in gennaio la commissione di vigilanza sullo Ior, mentre mantiene dal 2011 la carica di presidente dell’Apsa, l’ente che amministra gli immobili dello Stato vaticano. Ma anche il suo patrimonio privato non è trascurabile: il catasto italiano gli attribuisce, tra l’altro, un appartamento di 6,5 vani in via della Stazione di San Pietro e altri quattro edifici residenziali nel suo paese natale. Inoltre, insieme a due parenti, è comproprietario di oltre 70 ettari di campi e vigneti in Piemonte.

I terreni agricoli sono un bene-rifugio molto apprezzato anche da altri prelati. L’arcivescovo Michele Castoro, presidente dal 2010 della fondazione che controlla tra l’altro il grande ospedale di San Giovanni Rotondo, possiede 43 ettari di terreni a Gravina di Puglia, oltre a vari fabbricati rurali e a due appartamenti (il più grande di 12,5 vani). Ad Altamura, dove è nato nel 1952, risulta inoltre comproprietario, con cinque familiari, di altri 63 ettari di vigneti. Mentre l’ex decano dei cerimonieri pontificali, monsignor Paolo Camaldo, possiede insieme a due parenti nella natia Basilicata, tra Lagonegro e Rivello, un totale di 281 ettari di campi e vigneti.

Il libro di Guarino riporta correttamente che decine di cardinali italiani anche con ruoli di prim’ordine, come Angelo Bagnasco, Pio Laghi, Giovan Battista Re o Angelo Sodano, non hanno alcuna proprietà immobiliare.

Nullatenente risulta, come molti altri, anche l’ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone, criticato però per la scelta di una lussuosa abitazione intestata al Vaticano: un attico di circa 700 metri quadrati a Palazzo San Carlo, ricavato dall’accorpamento di due residenze (la prima di un monsignore morto nel 2013, l’altra di una vedova convinta a sgomberare). Va ricordato che Papa Francesco vive in un semplice bilocale di 70 metri quadrati, così come monsignor Pietro Parolin, il nuovo segretario di Stato vaticano.

Gli archivi del catasto gettano nuova luce anche sulle ricchezze personali di alcuni dei personaggi più controversi della Chiesa siciliana. Monsignor Salvatore Cassisa, l’ex vescovo di Monreale più volte inquisito dai magistrati di Palermo ma sempre assolto in Cassazione, risulta tuttora contitolare, insieme a una parente, di due immobili per complessivi 18 vani a Palermo. Con altri familiari, inoltre, ha un appartamento in comproprietà e tre in usufrutto a Erice, che si aggiungono a 26 ettari di terreni e 14 unità immobiliari (per complessivi 54 vani) a Trapani.

Un vero mistero (errore della burocrazia o qualcosa di peggio?) riguarda don Agostino Coppola, l’ex parroco di Carini che fu arrestato e condannato come complice dei mafiosi corleonesi di Luciano Liggio nella sanguinosa stagione dei sequestri di persona. Gettata la tonaca e sposatosi, si era visto sequestrare tutti i beni scoperti dai giudici di Palermo e Milano, tra cui una villa da un miliardo di lire, prima di morire nel 1995. Eppure l’ex sacerdote, che celebrò le nozze in latitanza di Totò Riina, compare tuttora come proprietario di 83 ettari di uliveti e 14 di agrumeti a Carini. A nome del defunto e dei suoi familiari è registrato pure il possesso perpetuo (con l’antico sistema dell’enfiteusi) di altri 49 ettari di campagne e due fabbricati a Partinico. Terreni concessi al prete mafioso, stando ai dati del catasto siciliano, da due proprietari istituzionali: il Demanio statale e l’Amministrazione del fondo per il culto.

espresso.repubblica.it/attualita/2014/07/14/news/cardinali-milionari-la-mappa-delle-proprieta-private-del-clero-1.173131?re...
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Imu-Tasi: la Chiesa non paga, esenti anche scuole private e cliniche convenzionate


Nel delirio delle date e delle scadenze c'è però chi non si preoccupa minimamente e non perchè abbia già provveduto al pagamento in anticipo, ma perchè il pagamento non lo effettuerà mai.
A dichiarare l'elenco dei fortunati esenti, un articolo pubblicato oggi su La Repubblica: a non pagare la doppietta Imu-Tasi saranno le scuole private (retta sotto 7mila euo), le cliniche convenzionate e la Chiesa.
Nel decreto firmato il 26 giugno dal ministro del Tesoro Padoan, infatti, vengono presentate tutte quelle soglie che risparmiano il salasso a numerosi immobili: tra questi, quelli degli Enti non commerciali (Enc), ma soprattutto quelli posseduti dalla Chiesa. Una lista che comprende circa 9mila istituti scolastici, parrocchie, oratori, università e musei sparsi su tutto lo Stivale.
Una controtendenza, se si pensa che lo scorso 28 febbraio 2014 il Governo aveva precisato - con comunicato ufficiale - che l'esenzione dalle imposte era prevista solo "per i 25 immobili di proprietà del Vaticano che sono citati nei Patti Lateranensi".

E poi ci sono i centri di sanità e assistenza, anche questi gestiti in parte dalla Chiesa. Esenti dall'Imu anche le scuole private. Qui a stabilire il paletto per il non pagamento è l'entità della retta richiesta alle famiglie degli studenti: se non supera il costo medio annuo per ogni alunno di scuola statale calcolato dall'Ocse (6.882,78 euro), possono non pagare.
Fuori dall'elenco anche le cliniche convenzionate ovvero quelle che svolgono il servizio insieme al sistema sanitario nazionale.
Niente sconti invece nell'intera filiera del settore alberghiero, dove a pagare saranno tutti, dagli hotel di lusso al bed & breakfast.


it.finance.yahoo.com/notizie/imu-tasi-la-chiesa-non-paga-esenti-scuole-private-e-cliniche-convenzionate-104407...
[Modificato da angelico 15/08/2014 20:18]
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Ior, utili su a 69,3 milioni e 4.600 conti chiusi. Al Vaticano 55 milioni di dividendi
Ior, utili su a 69,3 milioni e 4.600 conti chiusi. Al Vaticano 55 milioni di dividendi
Lobby
La banca della Santa Sede vede crescere l'avanzo netto, che nel 2013 si era fermato a 2,9 milioni. Estinti 554 rapporti che non rientrano nelle categorie autorizzate dalle nuove linee guida. Papa Bergoglio, in linea con l'indicazione che l'istituto deve tornare alla missione originaria, ha detto no al progetto di un fondo di investimento basato in Lussemburgo
di Francesco Antonio Grana | 25 maggio 2015 COMMENTI (40)

Più informazioni su: Conti Correnti, Ior, Jorge Mario Bergoglio, Vaticano
Oltre 3mila conti già chiusi allo Ior. È quanto emerge dal Rapporto annuale 2014 dell’Istituto per le opere di religione, la banca vaticana. Da maggio 2013 al 31 dicembre 2014 l’istituto ha chiuso 4.614 rapporti con suoi clienti, di cui 2.600 conti “dormienti”, cioè con saldo esiguo o inattivi, 554 rapporti che non rientravano nelle categorie autorizzate (i conti cosiddetti “laici”) e 1.460 per naturale estinzione. Attualmente sono in fase di chiusura altri 274 conti. Al 31 dicembre scorso risultavano 15.181 clienti. Lo Ior ha chiuso il 2014 con un utile netto di 69,3 milioni contro i 2,9 del 2013, quando a incidere negativamente erano stati i 15 milioni di euro dati dalla banca vaticana alla Lux Vide di Ettore Bernabei e il prestito infruttifero da circa 12 milioni di euro alla diocesi di Terni voluto dal Papa per sanare il buco economico di oltre 20 milioni di euro lasciato da monsignor Vincenzo Paglia. A fronte del miglioramento, “imputabile essenzialmente all’andamento del risultato da negoziazione titoli e alla diminuzione dei costi operativi di natura straordinaria”, la Santa Sede riceverà un “dividendo” di 55 milioni, in linea con quanto erogato nel 2014.

Al 31 dicembre 2014 il patrimonio netto della banca vaticana era pari a 695 milioni, a fronte dei 720 milioni del 2013. Il valore complessivo dei patrimoni affidati allo Ior dai suoi utenti è aumentato leggermente raggiungendo quota 6 miliardi di euro nel 2014, mentre nel 2013 erano 5,9 miliardi. Si tratta di 2,1 miliardi di euro (1,9 miliardi nel 2013) in depositi, 3,2 (3,3 nel 2013) in gestioni patrimoniali e 0,7 (0,8 nel 2013) di titoli in custodia.

Recentemente, come rivelato da Il Sole 24 Ore, il Papa ha bloccato il progetto che prevedeva la costituzione da parte dello Ior di una Sicav, fondo di investimento a capitale variabile, in Lussemburgo. L’idea era stata già approvata dal Consiglio di sovrintendenza della banca vaticana, il “board laico”, presieduto da Jean Baptiste de Franssu, ma poi si era bloccata una volta approdata sul tavolo della Commissione cardinalizia di vigilanza, presieduta dal cardinale Santos Abril y Castelló. A quel punto i porporati hanno deciso di sottoporre il progetto direttamente a Bergoglio che ne ha decretato la bocciatura. Con questa decisione il Papa ha voluto ribadire ancora una volta che lo Ior deve tornare alla missione originaria di assistenza alle opere di religione, evitando di avventurarsi in strumenti sofisticati, anche se legali.


www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/25/ior-utili-su-a-693-milioni-e-4-600-conti-chiusi-al-vaticano-55-milioni-di-dividendi/...
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Papa Francesco, il vescovo ciellino di Ferrara: “Bergoglio deve fare la fine dell’altro Pontefice”
Papa Francesco, il vescovo ciellino di Ferrara: “Bergoglio deve fare la fine dell’altro Pontefice”
Cronaca
Monsignor Luigi Negri, intercettato il 28 novembre scorso sul Frecciarossa partito da Roma-Termini, si è sfogato con il suo collaboratore dopo l'assegnazione di due diocesi per anni in mano a Comunione e liberazione a due preti di strada: "E' uno scandalo. Decisione avvenuta nel disprezzo delle regole. Speriamo che la Madonna faccia il miracolo". Raggiunto dal direttore della Nuova Ferrara non smentisce: "Qualcuno ha la registrazione?"
di Loris Mazzetti | 25 novembre 2015
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Più informazioni su: Chiesa, CL, Papa Francesco
“Speriamo che con Bergoglio la Madonna faccia il miracolo come aveva fatto con l’altro”. Il riferimento a papa Luciani è appena velato. La frase è dell’arcivescovo di Ferrara, Luigi Negri, alto prelato in profondo disaccordo con Francesco e punto di riferimento di Comunione e Liberazione.

Negri, allievo di don Giussani, è anche noto per aver contestato la magistratura quando incriminò Berlusconi per il caso Ruby. A chi allora gli fece notare che gran parte del mondo cattolico era indignato sulla vicenda delle Olgettine, rispose: “L’indignazione non è un atteggiamento cattolico”.

Contro la nomina dei preti di strada
Il motivo della sua contestazione: le recenti nomine di Papa Francesco a Bologna e Palermo, diocesi per anni in mano a Cl, dei vescovi Matteo Zuppi e Corrado Lorefice, due preti di strada. Monsignor Negri, il 28 ottobre, sul Frecciarossa partito da Roma-Termini (testimoni oculari hanno riferito l’accaduto), ha dato libero sfogo ai suoi pensieri a voce alta, come pare sia sua abitudine, incurante dei pochi presenti nella carrozza di prima classe, con il suo segretario, un giovane pretino dal look della curia che conta, doppio telefonino, pronto a filtrare le telefonate dell’arcivescovo. “Dopo le nomine di Bologna e Palermo – sbotta – posso diventare Papa anch’io. È uno scandalo. Incredibile, sono senza parole. Non ho mai visto nulla di simile”. L’alto prelato, lasciando sbigottiti i testimoni, non si rassegna deve parlare con qualcuno, chiede al segretario di chiamare al telefono un amico di vecchia data, anche lui di Cl, Renato Farina, noto come “agente Betulla”, rincarando la dose. Non ancora soddisfatto, continua con il giovane prete: “Sono nomine avvenute nel più assoluto disprezzo di tutte le regole, con un metodo che non rispetta niente e nessuno. La nomina a Bologna è incredibile. A Caffarra (il vescovo uscente per limiti d’età) ho promesso che farò vedere i sorci verdi a quello lì (Zuppi): a ogni incontro non gliene farò passare una. L’altra nomina, quella di Palermo, è ancora più grave. Questo (Lorefice) ha scritto un libro sui poveri – che ne sa lui dei poveri – e su Lercaro e Dossetti, suoi modelli, due che hanno distrutto la chiesa italiana”.

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La conferenza e la pancia della curia
Il Fatto ieri ha provato a contattare l’arcivescovo Negri per chiedere se volesse precisare le sue parole. “Sì, credo fosse su quel treno il 28 ottobre”, ha spiegato il suo portavoce don Massimo Manservigi ascoltando le frasi di Negri che gli avevamo ripetuto. “Ma adesso (ore 21:30, ndr) monsignore sta tenendo una conferenza all’università e non è possibile contattarlo”. Il Fatto resta a disposizione per ascoltare eventualmente le spiegazioni del prelato.

È comunque difficile credere che monsignor Negri parlasse a titolo personale e non rivelasse uno stato d’animo condiviso dalla casta vaticana. Bergoglio se vuole, come ha promesso, di portare a compimento i propositi di Giovanni XXIII – “Chiesa popolo di Dio” – prima di tutto deve allontanare i mercanti dal tempio.

La replica
Monsignor Negri, raggiunto dal direttore della Nuova Ferrara Stefano Scansani dopo la messa del 25 novembre, non ha smentito. L’arcivescovo ha detto che reagirà all’articolo nelle prossime ore e ha aggiunto: “Qualcuno ha registrato? Questo nuovo episodio spiega tutto l’odio teologico contro la Chiesa”.


www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/25/papa-francesco-vescovo-cl-di-ferrara-bergoglio-deve-fare-la-fine-dellaltro-pontefice/...
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“Il denaro deve servire, non governare”: si apre con questa frase, pronunciata da Papa Francesco nel 2013, il rapporto annuale del 2016 dell’Istituto per le opere di religione (Ior). Un adagio cui per una banca, quale appunto è quella vaticana, non deve essere certo facile attenersi. Tanto più che, alla fine dello scorso anno, non solo lo Ior ha realizzato utili, ma sono più che raddoppiati rispetto al 2015: il 2016 si è chiuso con profitti pari a 36 milioni di euro, contro i 16,1 milioni dell’esercizio precedente.

Dal rapporto annuale dello Ior
Come si legge nel rapporto annuale, “l’aumento del risultato rispetto al 2015 è imputabile al miglioramento del risultato dell’attività di negoziazione, alla rideterminazione di una passività stimata nel 2015 inerente l’esposizione fiscale nei confronti di altri paesi e alla diminuzione delle spese amministrative”. In realtà, il risultato netto dell’attività di negoziazione, e quindi di trading in gergo finanziario, ha accusato perdite per 9 milioni, ma con un forte miglioramento rispetto al rosso di 15,4 milioni dell’anno prima.

Città del Vaticano, 07/06/2017, udienza generale del mercoledì, Papa Francesco – foto di Pierpaolo Scavuzzo / AGF
“Tale evidenza – spiega il rapporto annuale dello Ior – risente principalmente della diminuzione registrata rispetto al 2015 del risultato netto delle quote di Oicr (in pratica, di fondi comuni, ndr) pari a 12,8 milioni di euro. La componente obbligazionaria contribuisce invece in maniera positiva al miglioramento del risultato netto di negoziazione registrando un rialzo nel 2016 rispetto al 2015 in conseguenza della positiva reazione del portafoglio dell’Istituto all’andamento dei mercati registrato durante l’anno”. Più in dettaglio, il comparto obbligazionario ha registrato un risultato netto complessivo positivo pari a 1,6 milioni, dato che si confronta con il forte rosso di 17,1 milioni che era stato registrato nel 2015. In particolare, oltre 6 milioni dei quasi 11 milioni di plusvalenze sono stati generati grazie alla negoziazione di obbligazioni. La diminuzione delle quote di Oicr è invece da imputare principalmente alla svalutazione di un fondo di investimento in portafoglio e ad altre perdite per un impatto negativo totale di 12,8 milioni (contro il contributo positivo di 149 mila euro del 2015).
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13/02/2015 Roma, Concistoro Straordinario Pubblico, secondo giorno. Nella foto Jean-Baptiste de Franssu, presidente Ior, e George Pell, primo Prefetto della segreteria per l’Economia del Vaticano – foto di Pierpaolo Scavuzzo / AGF
Guardando ai ricavi, tra interessi attivi e proventi di varia natura, sono entrati nelle casse dello Ior 39,8 milioni, di cui 22,6 grazie a obbligazioni, in forte calo rispetto ai 48,6 milioni del 2015 (di cui 26,2 da obbligazioni). Il risultato è stato una contrazione del margine di interesse, sceso a 36,7 milioni dai 43,6 dell’anno precedente. Le commissioni nette sono diminuite del 15,9%, arrivando a 12,8 milioni dai 15,2 milioni del 2015. A scendere sono state soprattutto le commissioni attive, passate a 15,8 milioni del 2016 dai 17,7 del 2015. La componente più importante delle commissioni attive deriva dalle commissioni incassate sulle gestioni patrimoniali, con una diminuzione dell’8,7% a 12,5 milioni da 13,7 milioni del 2015. “Ciò – spiega il rapporto – è principalmente dovuto allo spostamento di clienti con volumi elevati verso linee di gestione di tipo obbligazionario remunerate con commissioni più basse rispetto alle linee azionarie che gli stessi clienti detenevano in precedenza”. Nonostante il calo del margine di interesse e delle commissioni, l’ultima riga del conto economico, come visto, si è chiusa in miglioramento grazie a una forte riduzione dei costi operativi (da 30 a 6,8 milioni) e grazie all’impatto positivo di 13 milioni della voce “accantonamenti netti ai fondi per rischi e oneri” per il ricalcolo di una passività fiscale nei confronti di altri paesi.
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09/06/2017 Roma, Papa Francesco inaugura la nuova sede romana di Scholas Occurrentes – foto Pool Vaticano / AGF
Alla fine del 2016, la banca vaticana contava 14.960 clienti (in crescita dai 14.801 del 2015), la maggior parte dei quali inquadrabili come persone giuridiche di diritto canonico. “I clienti dello Ior – si legge sempre nel rapporto annuale – hanno una caratteristica comune: fanno parte e sono al servizio della Chiesa Cattolica”. Guardando ai patrimoni affidati allo Ior, quindi in gestione, a far da padroni sono gli ordini religiosi, che rappresentano il 54% dei clienti, seguiti da dicasteri della curia romana, uffici della Santa Sede e Stato Città del Vaticano e nunziature apostoliche (11%), enti di diritto canonico (9%), cardinali, vescovi e clero (8%), conferenze episcopali, diocesi e parrocchie (8 per cento). Il resto dei clienti “è formato da vari soggetti, tra cui dipendenti e pensionati del Vaticano e fondazioni di diritto canonico. I nostri clienti non solo depositano fondi da noi – aggiunge il documento – ma ci chiedono anche di fornire servizi di gestione patrimoniale o di custodia titoli”. Così, al 31 dicembre del 2016, il valore netto delle attività detenute nei portafogli gestiti era pari a 3,1 miliardi di euro, di cui la stragrande maggior parte, pari a 2,7 miliardi, detenuta fuori dal bilancio. Il valore netto dei portafogli in custodia e amministrazione era, invece, pari a 554,8 milioni, tutti fuori bilancio, mentre i depositi della clientela ammontavano a poco più di 2 miliardi, al contrario tutti in bilancio. In totale, tra depositi, patrimoni gestiti e portafogli in custodia e amministrazione, dal bilancio dello Ior emergono valori di terzi per 5,7 miliardi, in lieve calo rispetto ai 5,8 miliardi del 2015.
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Città del Vaticano, 07/06/2017, udienza generale del mercoledì, Papa Francesco – foto di Pierpaolo Scavuzzo / AGF
Che ne sarà dell’utile realizzato dalla banca vaticana? Il consiglio di sovrintendenza dello Ior, presieduto da Jean-Baptiste de Franssu, ha proposto alla commissione cardinalizia la distribuzione integrale dei profitti, “senza procedere ad alcun accantonamento a riserva, anche in considerazione dei risultati relativi all’analisi di adeguatezza patrimoniale”. In altri termini, i 36 milioni di utili diventeranno tutti dividendi che saranno girati alla Santa Sede, e quindi a Papa Francesco. Quanto al 2017, in generale, si prevede “una sostanziale stabilità dell’andamento della raccolta come compensazione tra deflussi dovuti agli accordi fiscali siglati tra Santa Sede e altri paesi e maggiori entrate in virtù dell’accresciuta qualità dei servizi offerti. Alla fine del 2018 saranno evidenti i risultati di questo lavoro”. Da ricordare, infatti, come pure segnalato nel rapporto, che il 15 ottobre 2016 è entrata in vigore la convenzione tra il governo della Repubblica italiana e la Santa Sede in materia fiscale. “Tale convenzione – chiarisce il bilancio dello Ior – ha avuto, tra l’altro, un duplice impatto sulle attività dell’istituto. Infatti l’accordo prevede, per i clienti residenti fiscalmente in Italia, da un lato, la regolarizzazione delle annualità pregresse a partire dal 2010 e fino al 2015 e, dall’altro, d’ora in avanti, che i clienti assolvano alle loro debenze fiscali per il tramite di un rappresentante fiscale scelto dall’istituto”.
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Un selfie con Papa Francesco. Franco Origlia/Getty Images
La convenzione si muove nella direzione di restituire trasparenza allo Ior dopo le polemiche e le turbolenze degli ultimi anni. Ecco perché il rapporto annuale spiega che “le tematiche della trasparenza e della reputazione saranno ovviamente centrali in questo processo di crescita; molte sono state le attività intraprese già dal 2013 per rendere l’istituto sempre più trasparente e allineato alle best practice (le migliori pratiche, ndr) internazionali”. Così, “lo Ior continuerà a operare nel rispetto della sua missione, che è quella di servire con prudenza il Santo Padre nell’adempimento della Sua missione di Pastore Universale, mediante la prestazione di servizi finanziari dedicati, sempre conformi alla normativa vaticana ed internazionale e di quanto affermato dallo stesso Santo Padre”. E cioè che “lo Ior non può avere come primo principio operativo quello del massimo guadagno possibile, bensì quelli compatibili con le norme di moralità, di coerente efficienza e di prassi che rispettino la specificità della sua natura e dell’esemplarità dovuta nel suo operare”. Perché il denaro, come si diceva, deve servire, non governare.


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