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Tumori : colon, lo studio: “Un batterio presente in bocca è collegato alla crescita del tumore”.

Ultimo Aggiornamento: 28/04/2024 19:25
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Sport e tumori: come l’esercizio fisico riesce a inibire la crescita di metastasi
di Anna Fregonara
Un nuovo studio ha indagato su quali potrebbero essere i meccanismi molecolari che entrano in gioco in questo ruolo protettivo dell’attività fisica

Sport e tumori: come l’esercizio fisico riesce a inibire la crescita di metastasi
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È noto, in letteratura scientifica, come l’attività fisica sia associata a numerosi benefici per la nostra salute, sia nelle persone sane sia in coloro che soffrono di malattie croniche, come quelle cardiovascolari o il diabete di tipo 2. «C’è un accordo mondiale, come emerge da tutte le linee guida, nel sostenere come alcuni stili di vita siano fondamentali per abbassare l’incidenza di tante malattie croniche odierne. Infatti, un’adeguata abitudine a praticare movimento non estremo associata a una corretta dieta e al mantenimento del normopeso, secondo i valori indicati dall’indice di massa corporea, sono fattori predittivi di riduzione del rischio di ammalarsi, di prognosi migliore, di impatto favorevole sulla possibilità di guarigione e, di conseguenza, di allungamento della vita», spiega Armando Santoro, direttore del Cancer Center dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano), professore ordinario di Oncologia Medica alla Humanitas University.

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Sport anche per i pazienti oncologici
Tra le malattie croniche più comuni vi rientrano i tumori e studi sia epidemiologici sia di laboratorio stanno mettendo sempre più in luce come anche i pazienti oncologici possano trarre vantaggio dal movimento, integrato alle terapie tradizionali. «I maggiori risultati si sono visti per il tumore alla mammella e al colon, ma si pensa che si possano estendere a tutte le forme anche se, è bene precisare, non c’è nulla di definitivo», precisa l’esperto.
Per cercare di capire come l’esercizio possa potenzialmente influire sull’incidenza del cancro e come possa inibirne la crescita, un gruppo di ricercatori ha di recente indagato, si legge sulle pagine di Cell Metabolism , quali potrebbero essere i meccanismi molecolari che entrano in gioco in questo ruolo protettivo dello sport.

Stress nemico delle metastasi
«L’esercizio fisico potrebbe avere un ruolo nel controllo della progressione del cancro attraverso un effetto diretto sui fattori intrinseci al tumore. Infatti, determina una regolazione sia fisica — aumento del flusso sanguigno, stress parietale a livello vascolare, crescita della temperatura e dell’attività simpatica —, sia endocrina — rilascio di catecolamine e altre sostanze —. Il tutto si traduce in un aumento dello stress metabolico, del danno cellulare e della produzione di radicali liberi che sembra essere in grado di attivare vie di segnalazione che impediscono la formazione di metastasi », precisa il professore.

Effetto sistemico
«Gli adattamenti cronici dell’allenamento comprendono, inoltre, alterazioni sistemiche con miglioramento della funzione immunitaria, riduzione dell’infiammazione sistemica e miglioramento della salute metabolica, fattori che possono proteggere anche il paziente oncologico», aggiunge l’esperto.

Attenuazione degli eventi avversi
«Il movimento, infine, può svolgere ruoli diversi in tutto il continuum del cancro: ridurre il rischio nel periodo pre-diagnostico; migliorare la tolleranza e l’efficacia dei farmaci durante il trattamento; prevenire le ricadute, controllare gli effetti avversi dopo il trattamento antitumorale primario e ridurre il rischio di comorbidità». «Insomma», conclude l’oncologo, «il messaggio è: muoviamoci, anche 30 minuti al giorno, in base alla propria preparazione e al proprio stato di salute, confrontandoci con il proprio medico. L’attività fisica è un rimedio validissimo contro tutte le malattie croniche, tumori compresi».





www.corriere.it/salute/sportello_cancro/23_dicembre_09/tumori-esercizio-fisico-inibisce-crescita-metastasi-ff5bd6be-8de1-11ee-80d7-6428e39ac8...
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Tumore al pancreas: in 8 casi su 10 è scoperto tardi; chi rischia di più, i sintomi da non trascurare
di Vera Martinella
Questa neoplasia ha ancora il tasso di sopravvivenza più basso tra tutte le patologie oncologiche, ma se la diagnosi avviene agli stadi iniziali le prospettive migliorano molto

Tumore al pancreas: in 8 casi su 10 è scoperto tardi; chi rischia di più, i sintomi da non trascurare
(Getty Images)

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«Quanto pesano 80 grammi?» È una domanda-trabocchetto quella scelta per la campagna di sensibilizzazione sul tumore del pancreas, di cui si è celebrata la Giornata mondiale il 16 novembre. Se 80 grammi in assoluto non sono certo molti, pochi sanno che tale è il peso medio del pancreas , piccolo organo situato nell’addome, dietro lo stomaco, grande circa 15-20 centimetri. Questo etto scarso assume allora un'importanza decisamente maggiore se si considera che svolge due funzioni fondamentali per il nostro corpo: produce ormoni come l’insulina e il glucagone, che regolano il livello di zuccheri nel sangue, e secerne enzimi per la digestione degli alimenti. Ancora più rilevante è il peso del pancreas se si ammala, specie se la patologia in questione è il cancro. Lo stesso che ha segnato il destino di personaggi illustri, come il calciatore Gianluca Vialli (ne abbiamo scritto qui), il tenore Luciano Pavarotti, l’attore Patrick Swayze e il co-fondatore di Apple Steve Jobs.

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Attenti a questi sintomi
Aggressivo e ancora difficile da combattere, il tumore del pancreas ha purtroppo il tasso di sopravvivenza più basso tra tutte le patologie oncologiche: a cinque anni dalla diagnosi è vivo, in media, il 10-12% dei pazienti. Una percentuale ben distante dall’88% del tumore al seno, ad esempio, o dal 90% di quello alla prostata. Un triste primato dovuto in gran parte alla diagnosi tardiva: «In otto casi su dieci la neoplasia viene scoperta in stadio avanzato, limitando le possibilità di trattamento - spiega Silvia Carrara, presidente dell’Associazione Italiana Studio Pancreas (Aisp) e gastroenterologa all’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Milano -: molti dei sintomi precoci sono infatti aspecifici e spesso associabili anche ad altri tipi di patologie, ma una diagnosi precoce può invece consentire buone possibilità di sopravvivenza». Quali sono i segnali da non trascurare? È bene parlare con un medico, senza temporeggiare troppo, in caso di dolore alla parte alta dell’addome, ittero (colorito giallastro della pelle e degli occhi) e prurito, perdita improvvisa di peso e appetito, difficoltà digestive, cambiamento delle abitudini intestinali (feci molli e untuose), comparsa improvvisa del diabete in un adulto senza fattori di rischio specifici, dolore in mezzo alla schiena.

Chi rischia di più
Proprio sulla diagnosi precoce hanno puntato, in occasione della Giornata mondiale, Fondazione Nadia Valsecchi e Associazione Oltre la Ricerca ODV, realtà che da anni si occupano di sensibilizzare la popolazione, supportare la ricerca sul tumore al pancreas ed assistere i pazienti e le loro famiglie nei percorsi di diagnosi e di trattamento. Le associazioni hanno infatti avviato una collaborazione con Federfarma e con la Società Italiana di Medicina Generale (Simg), per sensibilizzare la popolazione e le istituzioni sulla necessità di fare di più per individuare un numero maggiore di casi in stadio iniziale e attivare percorsi di sorveglianza nelle persone a maggior rischio di tumore del pancreas. Fumo e chili di troppo (soprattutto l’obesità) aumentano il rischio di ammalarsi, così come il diabete e la pancreatite cronica (uno stato d’infiammazione permanente fra le più gravi conseguenze di un abuso cronico di alcol) e l'essere portatori di una mutazione dei geni BRCA. «A oggi sono poche le strutture che hanno attivatoprotocolli di sorveglianza attiva per i soggetti ad aumentato rischio di sviluppare la patologia o Percorsi Diagnostico-Terapeutici Assistenziali (PDTA) standardizzati - dice Federica Valsecchi, presidente di Fondazione Nadia Valsecchi –. Mancano risorse e strategie a questo dedicate da parte del Servizio Sanitario Nazionale, così come andrebbero implementati a livello europeo i fondi dedicati alla ricerca scientifica su questa patologia».

L’utilità della sorveglianza
Servono più investimenti per migliorare le speranze di chi si ammala, perché qualcosa ha iniziato a muoversi: seppure pochi e lenti, anche nel tumore al pancreas i progressi negli ultimi anni ci sono stati. «L’aspettativa di vita, che era per lo più di pochi mesi, per un numero crescente di malati che oggi si riescono a operare arriva anche fino a tre anni - ricorsa Silvia Carrara -. Oggi sappiamo che alcuni gruppi di persone sono più a rischio di sviluppare la malattia per familiarità (presenza di più casi di tumore al pancreas in famiglia) o perché sono portatori di mutazioni a geni quali BRCA, CDKN2A e altri coinvolti anche nello sviluppo del tumore del pancreas. Studi recenti dimostrano inoltre che la presenza di diabete di recente insorgenza, o di vecchia data non più ben compensato con la terapia in uso, è un altro importante fattore che deve allertare chi segue il malato a una scrupolosa valutazione del pancreas. L’evidenza degli studi pubblicati in letteratura dimostra che l’identificazione di particolari categorie di soggetti a rischio e la sorveglianza condotta con i giusti mezzi, e con la tempistica corretta, può portare a diagnosi precoci e di conseguenza ad una più elevata percentuale di casi operabili e a una più alta sopravvivenza dei malati». «Occorre sviluppare strategie di presa in carico dei pazienti sul territorio in modo da garantire equità delle cure e il "diritto alla salute" su tutto il territorio nazionale – dice Francesca Gabellini, presidente di Oltre la Ricerca ODV –. Gli inderogabili doveri di solidarietà sociale sanciti dalla nostra Costituzione si attuano anche con la messa in campo dei livelli essenziali di assistenza, che dovrebbero essere garantiti ovunque secondo criteri di uniformità attraverso un intervento di regolazione da parte dello Stato».

Terapie in mani esperte
Ogni anno in Italia si registrano oltre 14.500 nuovi casi di tumore del pancreas, la maggior parte dei quali in persone fra i 60 e gli 80 anni. E i numeri sono, purtroppo, in aumento. Da tempo però gli specialisti sottolineano l'importanza di rivolgersi un centro di riferimento nella diagnosi e nel trattamento delle neoplasie pancreatiche perché, come hanno dimostrato studi e statistiche, l'esperienza del chirurgo fa la differenza, così come la collaborazione fra vari esperti. «Il percorso per la diagnosi ed il trattamento del tumore del pancreas è molto complesso, e richiede, oltre alle risorse tecnologiche adeguate, la presa in carico da parte di un team multidisciplinare che racchiuda in sé tutte le competenze specialistiche che si occupano di pancreas - precisa la presidente Aisp, Carrara -. La creazione di un percorso standardizzato di diagnosi e trattamento, e di un coordinamento a rete fra i centri esperti (chiamati Hub) e quelli meno esperti (spoke) è fondamentale per garantire cure più adeguate ai malati». Se l’operazione va fatta solo in centri con determinati requisiti, dove si concentrano più mani esperte, la chemioterapia resta ancora oggi un’arma importante e, sostanzialmente, le possibilità di guarigione definitiva dipendono dalla sua capacità di distruggere la malattia «invisibile».

Obiettivo: diagnosi precoce
«La maggioranza dei pazienti con tumore del pancreas inizia il proprio percorso diagnostico presentando i sintomi al proprio medico curante – aggiunge Claudio Cricelli, presidente Simg –: si rende necessaria sempre più la diffusione del sospetto per identificare i pazienti a rischio che necessitano di ulteriori approfondimenti e l’applicazione di strategie volte a raggiungere diagnosi precoci». Altrettanto importante, per guadagnare tempo prezioso, può essere il ruolo delle oltre 19mila farmacie presenti su tutto il territorio nazionale: «Fare prevenzione e screening rientra nelle quotidiane attività della farmacia di comunità - conclude Marco Cossolo, Presidente di Federfarma nazionale -. Per questo appoggiamo con convinzione la campagna “Quanto pesano 80 grammi?”. Ogni giorno i farmacisti accolgono e ascoltano le persone che si rivolgono loro con fiducia per essere orientate ed ottenere consigli sui propri problemi di salute, svolgendo così il ruolo di informatori e formatori in stretta collaborazione con gli altri professionisti sanitari che operano sul territorio. Con l’obiettivo, anche in collaborazione con le società scientifiche e le associazioni di malati, di creare percorsi multidisciplinari e integrati che mettano il paziente al centro».

www.corriere.it/salute/sportello_cancro/23_novembre_16/tumore-pancreas-in-8-casi-10-scoperto-tardi-chi-rischia-piu-sintomi-non-trascurare-79a57b2e-82f6-11ee-b79d-d612fc4c3e...

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Tumore al pancreas, ecco il meccanismo chiave che promuove la sua formazione
di Redazione Salute
Lo studio pubblicato sulla rivista Nature dai ricercatori dell’ospedale San Raffaele di Milano individua un nuovo potenziale bersaglio terapeutico per rallentare la progressione del tumore al pancreas

Tumore al pancreas, ecco il meccanismo chiave che promuove la sua formazione
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Il gruppo di scienziati – sotto la guida del professor Renato Ostuni, responsabile del laboratorio di Genomica del Sistema Immunitario Innato all’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) e professore associato all’Università Vita-Salute San Raffaele – ha scoperto un meccanismo inedito, che promuove la crescita del tumore del pancreas . Tale meccanismo è basato sull’interazione fra i macrofagi IL-1β+ e alcune cellule tumorali caratterizzate da uno specifico profilo infiammatorio e da elevata aggressività. I risultati della ricerca – sostenuta da Fondazione AIRC, dal Consiglio Europeo delle Ricerche (ERC) e dal Ministero della Salute – suggeriscono che bloccare questa interazione potrebbe essere una nuova strategia per contrastare l’insorgenza del tumore al pancreas in persone a rischio o per potenziare le risposta all’immunoterapia in pazienti già colpiti da questo tipo di cancro.

Il ruolo dei macrofagi
I macrofagi sono un tipo di cellule del sistema immunitario innato, fondamentali per proteggere l’integrità dei tessuti e attivare rapide risposte protettive contro agenti patogeni e altre minacce esterne. Nei tumori, tuttavia, le funzioni dei macrofagi sono profondamente riprogrammate, al punto che queste cellule sostengono la progressione della malattia anziché contrastarla. I macrofagi associati al tumore (o TAM) sono bersagli importanti dell’immunoterapia, poiché una loro maggiore abbondanza è generalmente associata a resistenza ai trattamenti, a metastasi e a una minore sopravvivenza dei pazienti. Nel caso del tumore al pancreas, tuttavia, l’eterogeneità dei TAM e la complessità della loro interazione con il microambiente tumorale hanno reso difficile fino a oggi colpire queste cellule a scopo terapeutico. «Oltre a essere caratterizzato da un sistema immunitario compromesso che limita l’efficacia anche delle più avanzate immunoterapie, il tumore del pancreas presenta una forte componente infiammatoria», specifica Renato Ostuni. «Ciò è particolarmente rilevante poiché l’insorgenza di danni ai tessuti – e le risposte infiammatorie che ne conseguono, quali le pancreatiti – sono noti fattori di rischio per lo sviluppo neoplastico». Da cosa dipenda la capacità dell’infiammazione di promuovere la crescita del tumore del pancreas era finora poco chiaro: con questo studio, i ricercatori hanno identificato uno dei meccanismi cruciali per questo processo.

Le tecnologie utilizzate
Per arrivare a questi risultati il gruppo di ricerca di Ostuni ha utilizzato tecnologie innovative a singola cellula e di trascrittomica spaziale, in grado di svelare le caratteristiche molecolari di migliaia di singole cellule nel loro microambiente naturale. In campioni di pazienti con tumore del pancreas, i ricercatori hanno così identificato un nuovo sottogruppo di macrofagi, chiamati IL-1β+ TAM e capaci di stimolare l’aggressività delle cellule tumorali nelle loro vicinanze. Più precisamente, tali macrofagi inducono una riprogrammazione infiammatoria e promuovono il rilascio di fattori che, a loro volta, favoriscono lo sviluppo e l’attivazione degli IL-1β+ TAM stessi. «Si tratta di una sorta di un circolo vizioso autoalimentato. I macrofagi rendono le cellule tumorali più aggressive, e le cellule tumorali riprogrammano i macrofagi in grado di favorire l’infiammazione e la progressione della malattia» spiega Ostuni. Nello studio è stato anche scoperto che gli IL-1β+ TAM non sono distribuiti in modo casuale, ma sono localizzati in piccole nicchie vicino alle cellule tumorali infiammate. È proprio la vicinanza fisica tra macrofagi e cellule tumorali che potrebbe sostenere la progressione della malattia. «Abbiamo condotto esperimenti per studiare come interferire con questo circuito. I risultati, seppure ottenuti per ora in studi solo di laboratorio, sono incoraggianti. Questo approccio ha portato infatti a una riduzione dell’infiammazione e a un rallentamento della crescita del tumore del pancreas», concludono Nicoletta Caronni e Francesco Vittoria, tra gli autori principali dell’articolo.




www.corriere.it/salute/23_novembre_01/tumore-pancreas-ecco-meccanismo-chiave-che-promuove-sua-formazione-30bc6488-77fa-11ee-9c2e-f70519f466...
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La malattia di Allevi: cosa è il mieloma, i sintomi e le speranze di guarigione
di Vera Martinella
Il musicista torna in pubblico dopo un lungo stop per le cure. Sintomi, trattamenti standard e novità che allungano la sopravvivenza di chi si ammala. Ricadute molto frequenti, ma oggi si può aspirare a guarire

La malattia di Allevi: cosa è il mieloma, i sintomi e le speranze di guarigione
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L’annuncio lo aveva dato lui stesso a giugno 2022 in un post su Instagram: «Non ci girerò intorno: ho scoperto di avere una neoplasia dal suono dolce: mieloma, ma non per questo meno insidiosa». Da allora il musicista Giovanni Allevi, 54 anni, ha più volte aggiornato tramite social i fan sulle sue condizioni di salute, raccontando con parole e fotografie, un percorso doloroso e difficile. Questa sera, sul palco del Festival di Sanremo, il pianista e compositore torna per la prima volta in pubblico dopo una lunga pausa che è stata necessaria per curarsi. La malattia era stata scoperta per accertamenti fatti a causa di un «mal di schiena lancinante» che lo tormentava: «Spesso, agli stadi iniziali, il mieloma multiplo non dà segni oppure si presenta con sintomi aspecifici come stanchezza e mal di schiena» dice Paolo Corradini, presidente della Società Italiana di Ematologia e direttore della Divisione di Ematologia della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.

I sintomi
Cosa c’entrano i dolori ossei? «Il mieloma è un tumore che colpisce alcune cellule contenute nel midollo osseo che hanno la funzione di produrre gli anticorpi necessari a combattere le infezioni: le plasmacellule — risponde Corradini —. La crescita anomala delle plasmacellule tumorali a può provocare una riduzione della normale produzione di cellule emopoietiche (globuli rossi, bianchi e piastrine) causando anemia (con conseguente astenia, cioè una grande stanchezza), abbassamento del numero dei globuli bianchi (con predisposizione alle infezioni) e/o un calo delle piastrine (aumentando il rischio emorragico) e fragilità delle ossa». Infatti, la maggior parte dei pazienti sintomatici con mieloma soffre di dolore osseo (per lo più alla colonna vertebrale e alle costole), presente in circa i due terzi dei pazienti con nuova diagnosi e spesso porta all’allettamento. Sono comuni anche le fratture ossee e le lesioni del midollo spinale.

Le terapie
Per i pazienti asintomatici (e senza altre particolari condizioni) non c’è indicazione ad alcun trattamento e si procede con controlli frequenti per verificare l’eventuale evoluzione del tumore. Per tutti gli altri, che invece necessitano di trattamenti, le opzioni a disposizione oggi sono moltissime e la strategia viene stabilita in base a una serie di parametri calibrati sul singolo caso. «Il mieloma multiplo è una patologia tipica dell’età avanzata e le cure devono comunque tenere in considerazione la situazione generale del malato – sottolinea Michele Cavo, direttore dell’Istituto di Ematologia Seràgnoli all’Università degli Studi di Bologna e IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria bolognese —: chi ha un’età fino ai 65-70 anni e una buona funzionalità d’organo (cuore, polmone, rene, fegato) viene in genere candidato a un approccio terapeutico più intensivo, che include (oltre a farmaci biologici), il trapianto di midollo osseo autologo (detto anche autotrapianto, perché le cellule vengono prelevate dal paziente stesso). Chi non è idoneo, riceve in genere una terapia basata sull’impiego di farmaci biologici associati o meno a chemioterapia».


Ricadute molto frequenti
Questa neoplasia resta, però, molto insidiosa perché comporta remissioni temporanee seguite da recidive e quasi 9 pazienti su 10 vanno incontro, nel tempo, a una ricaduta . Quando questo accade le terapie prevedono, se possibile, l’uso di farmaci appartenenti a classi alle quali il paziente non è stato precedentemente esposto, con selettivo impiego dellaradioterapia. Dall’inizio degli anni Duemila l’approccio terapeutico è cambiato radicalmente grazie alla disponibilità di nuovi farmaci biologici che hanno dimostrato grande efficacia e hanno allungato notevolmente la sopravvivenza dei malati.

Speranze di guarigione
«Si è passati da pochi mesi di vita a una sopravvivenza media di molti anni — dice Cavo —. Ora combiniamo fra loro medicinali con meccanismi d’azione diversi (immunomodulanti, inibitori del proteasoma, anticorpi monoclonali) così da colpire il tumore su più fronti. Li somministriamo prima o dopo il trapianto di cellule staminali (non sempre previsto), abbiamo terapie di consolidamento e di mantenimento, con l’obiettivo di arrivare a eliminare tutte le cellule cancerose (tecnicamente si chiama “negativizzare la malattia minima residua”). E poi per la prima volta nella storia di questo tumore, abbiamo la speranza di poter arrivare alla guarigione. Bisogna essere cauti, per non dare false speranze ai malati, ma chi deve affrontare questa neoplasia oggi può farlo consapevole del fatto che la ricerca scientifica ha fatto molti progressi e può offrire un armamentario terapeutico molto efficace e relativamente ampio».

Nuove terapie in arrivo
Contro il mieloma multiplo esistono poi ulteriori nuove terapie, alcune già disponibili nel nostro Paese altre che dovrebbero essere approvate a breve: «Gli anticorpi bispecifici per ora vengono prescritti ai pazienti che non hanno tratto i benefici sperati dalle cure standard e nei quali la malattia va avanti, progredisce, dopo i trattamenti – conclude Corradini —. Aspettiamo poi il via libera per le CAR-T, sempre per chi è refrattario alle cure o ha avuto recidive, che ci hanno già fatto sperare nella guarigione dei pazienti con altri tumori del sangue e ci aspettiamo possa accadere lo stesso nel mieloma».

Le cause
Le cause del mieloma multiplo non sono ancora note, ma la malattia colpisce prevalentemente persone sopra i 65 anni. Sono più o meno 4.500 i nuovi casi diagnosticati ogni anno nel nostro Paese e la maggior parte dei pazienti ha più di 50 anni (rarissimi i casi prima dei 40). Circa il 42% dei malati è vivo a cinque anni dalla diagnosi, ma la sopravvivenza dipende da vari fattori e grazie all’arrivo di nuovi farmaci l’aspettativa di vita può essere superiore di molti anni.



www.corriere.it/salute/sportello_cancro/24_febbraio_07/giovanni-allevi-sanremo-2024-malattia-19430cf0-c5be-11ee-ae5b-76d7e549c9c5.shtml?re...
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Cancro al colon, lo studio: “Un batterio presente in bocca è collegato alla crescita del tumore”. Le prospettive per diagnosi e cura
Cancro al colon, lo studio: “Un batterio presente in bocca è collegato alla crescita del tumore”. Le prospettive per diagnosi e cura
di Ennio Battista | 28 APRILE 2024
Dalla bocca all’intestino per capire come fermare in tempo un tumore al colon. Una nuova ricerca in campo oncologico conferma l’importanza della salute del microbioma intestinale e apre importanti prospettive su come migliorare le diagnosi e curare tempestivamente questa grave patologia. Un gruppo di ricerca del Fred Hutchinson Cancer Center di Seattle ha studiato un batterio presente nel cavo orale degli esseri umani che è collegato alla crescita e alla progressione del cancro al colon. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature, ha messo in evidenza che uno specifico sottotipo di batterio, detto “clade”, presente all’interno di una sottospecie di Fusobacterium nucleatum, può essere alla base dell’insorgenza della malattia e aiutare a mettere a punto migliori metodi diagnostici non invasivi per il cancro al colon e terapie mirate a questi batteri per eliminare il tumore.

La ricerca – Il F. nucleatum, associato alla placca dentale e alla gengivite, è naturalmente presente nel microbioma della bocca. Per capire meglio come questo batterio influenzi l’ambiente intestinale a tal punto da favorire lo sviluppo del cancro al colon, il primo passo è stato analizzare i genomi di F. nucleatum trovati nei tumori del colon per confrontarli con quelli trovati nella bocca. I ricercatori hanno campionato i tumori del colon da circa 100 persone, quindi hanno frammentato i tessuti tumorali e li hanno messi su piastre di agar per permettere ai batteri presenti di crescere. Dopo aver isolato il F. nucleatum da queste colture, gli scienziati hanno eseguito un processo chiamato long-read sequencing per ottenere una visione completa del genoma del batterio. Il gruppo ha confrontato le sequenze dei tessuti del cancro al colon con quelle di F. nucleatum provenienti dalla bocca di individui sani.

Questo ha rivelato due cladi (gruppi) principali che si distinguono per alcune caratteristiche del DNA e nei modelli di proteine codificate. I batteri dei due cladi avevano anche un aspetto diverso tra loro al microscopio: gli esemplari del secondo clade erano più lunghi e sottili di quelli del primo. F. nucleatum animalis dei tumori del colon rientrava in modo preponderante nel secondo clade. Interessante le caratteristiche di questi ultimi: sembrano aiutare i batteri a sopravvivere al pericoloso viaggio dalla bocca all’intestino, come la capacità di nutrirsi in ambienti ostili come il tratto gastrointestinale fortemente acido o di invadere meglio le cellule. Questi batteri hanno anche “uno dei più potenti sistemi di resistenza agli acidi” che si possano trovare proprio nei batteri, che permette loro di tollerare l’ambiente acido dello stomaco, spiega Christopher Johnston, genetista del Fred Hutchinson Cancer Center e coautore dello studio. In sintesi, il quadro che è emerso alla fine di questa fase di studio è che i microbi del secondo clade sono più fortemente associati al cancro del colon. Ma non è finita qui. Occorrevano altri elementi per comprendere meglio come questi microbi interagiscono con l’intestino. Per farlo, si è utilizzato questa volta un campione di cavie animali.

Lo studio su cavie animali – I ricercatori hanno somministrato a un gruppo di topi una singola dose orale di F. nucleatum animalis del clade 1 e a un altro una dose del clade 2 (quello appunto associato al tumore al colon), quindi hanno contato il numero di tumori formatisi. I topi del gruppo del clade 2 hanno sviluppato un numero significativamente maggiore di tumori intestinali di grandi dimensioni rispetto a quelli a cui era stato somministrato il batterio del clade 1 o un gruppo di controllo in cui non era presente nessuno dei due batteri. Le molecole metaboliche all’interno dei tumori dei topi con batteri del clade 2 erano maggiormente associate a un danno cellulare dovuto a stress ossidativo, alla divisione delle cellule cancerose e all’infiammazione rispetto ai topi del gruppo di controllo e del gruppo di batteri del clade 1. Che cosa significa tutto questo? L’ipotesi è che i batteri del clade 2 contribuiscano a produrre un ambiente pro-infiammatorio e pro-oncogeno. Il gruppo di ricerca ha però sottolineato anche che sono necessarie ulteriori prove da parte di un gruppo più ampio di persone affette da cancro al colon, nonché ulteriori ricerche per capire esattamente in che modo i batteri possano contribuire all’infiammazione e alla progressione del cancro.

Il parere dell’esperto – “Sapevamo già da tempo della relazione tra batteri del cavo orale e insorgenza di tumori al colon. La novità della ricerca è data dalla presenza di un sotto ceppo del F. nucleatum animalis, il clade 2, che supera il succo gastrico – che normalmente distrugge i batteri nocivi – riesce a nutrirsi e colonizzare il colon trovandosi spesso dentro le cellule tumorali del colon”, spiega al Fattoquotidiano.it il professor Gabriele Capurso, responsabile di Unità Funzionale di Ricerca Clinica presso l’Unità Operativa di Endoscopia Biliopancreatica ed Ecoendoscopia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e Vice Direttore del Centro per la Ricerca e Cura sulle Malattie del Pancreas del San Raffaele. Quali prospettive si possono aprire dal punto di vista terapeutico? “In una visione più futurista si potrebbero ingegnerizzare questi batteri e trasformarli in vettori che trasportano, paradossalmente, un principio attivo curativo. Restando su un piano più immediato, si potrebbe lavorare su specifici antibiotici o probiotici in modo da riequilibrare il microbioma intestinale per ridurre il rischio di sviluppare un tumore. Ma ancora più efficace è lavorare in ottica di prevenzione”. I ricercatori affermano che questa scoperta sarebbe utile per diagnosi precoci e non invasive. “Prima di tutto, in ottica di prevenzione, sapere che un sottoceppo così particolare di questo batterio è in relazione col tumore del colon potrebbe essere utile per la diagnosi precoce su campioni di feci o per la prevenzione in soggetti a rischio, magari con una storia familiare molto forte, in una fase in cui stanno ancora bene. Questo approccio potrebbe essere efficace anche per il tumore al pancreas, un ambito di cui stiamo per pubblicare un nostro studio in cui emerge un’analoga correlazione con il batterio presente in caso di parodontite”. Appare sempre più cruciale l’importanza di mantenere equilibrato il microbioma intestinale: “Dobbiamo pensare al microbioma come a una comunità multietnica. Più c’è diversità, maggiore è l’arricchimento per l’organismo e, nel nostro caso specifico, più salute. Il clade 2 è un batterio forte, una sorta di colonizzatore che vuole farla da padrone, che riduce la diversità e apre le porte al rischio di malattie gravi”. Il nostro stile di vita sta aprendo la strada a questo prepotente colonizzatore? “Di fatto, c’è un’associazione tra consumo di cibi ultra processati, carni allevate con antibiotici, fumo” ma c’entrano anche “gli antibiotici somministrati ai bambini in modo improprio e che selezionano batteri molto resistenti” nonché “l’abuso di farmaci anti acido che si possono assumere senza prescrizione medica (che sterilizzano l’ambiente gastrico)”. Tutto questo produce un effetto comune: “La riduzione della complessità del microbioma intestinale. Un fenomeno crescente negli ultimi decenni che sta portando a un aumento di problemi di salute su cui dobbiamo porre al più presto rimedio”.



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