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Lavoro: aumentano le tasse sui salari in Italia, cuneo fiscale al 49 per cento

Ultimo Aggiornamento: 02/05/2016 23:49
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Manovra, ecco la scorciatoia
verso un Paese più precario

Licenziamenti senza giusta causa che si chiudono con un indennizzo ma senza il reintegro; la retribuzione che diventa una variabile decisa dai contratti di prossimità; mansioni e inquadramenti a prescindere dai titoli e dal curriculum; orari, pause, notti in deroga agli accordi nazionali; part time sempre più simile al lavoro a chiamata. Ecco come il contestato articolo 8 può ulteriormente cambiare la condizione dei lavoratori in ItaliaROMA - Tra le pieghe della manovra correttiva settembrina, il Governo ha inserito un articolo, l'articolo 8, che poco ha a che fare con la salute dei conti pubblici e molto con la salute del diritto del lavoro. Nei mesi del declassamento del debito pubblico italiano e dei conti in rosso, il Ministro Sacconi non rinuncia a mettere le mani su Contratto Collettivo Nazionale e Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. L'articolo 8 prevede la possibilità di derogare, con intese a livello territoriale, sia ai contratti collettivi nazionali di lavoro che alla legge, su un ampio ventaglio di materie: dal licenziamento, agli orari di lavoro, alla regolamentazione del part-time, alle mansioni e agli inquadramenti, fino alla disciplina delle assunzioni e dei rapporti di lavoro.

Concretamente significa che i diritti dei lavoratori sanciti dalla Legge e le condizioni previste nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro potrebbero non valere più. O, almeno, non per tutti, non ovunque. I contratti di "prossimità" (questa la dicitura utilizzata per le intese da attivare a livello aziendale o territoriale) potrebbero stabilire cose anche molto diverse tra luogo e luogo. Titolati a firmare queste intese i sindacati "comparativamente più rappresentativi" anche sul piano territoriale o aziendale: un sindacato presente in una sola impresa, magari perché gradito all'azienda e quindi magari meno autonomo dagli interessi dell'impresa, è, insomma, investito dello stesso ruolo di un sindacato nazionale.

Addio al principio di eguaglianza di trattamento tra lavoratori? Addio allo Statuto dei Diritti dei Lavoratori? Questa è la posta in gioco? Lo si vedrà a partire dalle (presumibilmente) numerose cause di lavoro che partiranno non appena questa norma farà i primi passi. Sì, perché la norma, oltre ad essere stata fin da subito molto contestata in ambito sindacale, tanto da scatenare una dura reazione della CGIL partita con lo sciopero generale del 6 Settembre 2011, è anche particolarmente confusa, ragion per cui è diventata oggetto di una pioggia di critiche da parte di una consistente porzione di giuslavorasti.

In realtà ciò che ispira l'articolo 8 sembra essere la generalizzazione a tutto il mondo del lavoro delle condizioni e del trattamento oggi riservate ai lavoratori precari. Per questo il modo migliore per raccontare le possibili ripercussioni di quella norma è raccontare la condizione di vita e di lavoro dei così detti "atipici", ormai sempre più numerosi, ormai sempre più "tipici".

Licenziamenti, mansioni e inquadramenti, orario di lavoro, compenso, malattia, disciplina: sono tutti temi sui quali a chi ha un contratto precario non è data alcuna garanzia, né alcuna certezza, come denuncia la campagna Giovani NON+ disposti a tutto della Cgil, che sulla condizione dei lavoratori precari e sui rischi dell'articolo 8 della manovra economica ha promosso la campagna "La precarietà non paga".

E' ipotizzabile, dunque, che un "contratto di prossimità" preveda che, a seguito di un licenziamento senza giusta causa, non ci sia la reintegra nel posto di lavoro, ma solo un indennizzo, magari irrisorio. Ecco che l'instabilità dei lavoratori precari irrompe anche nella vita di tutti gli altri.

Oppure ci si può attendere che a livello aziendale vengano attribuiti ai lavoratori mansioni e inquadramenti a prescindere dai titoli e dall'esperienza. Ed ecco quindi l'iper-qualificato a cui viene chiesto di svolgere compiti di segreteria o il dirigente con venti anni di anzianità spostato all'ufficio timbri. Oppure, il contrario: un lavoratore inquadrato a un basso livello cui viene chiesta un'assunzione di responsabilità sproporzionata. Esattamente come avviene oggi per quell'esercito di parasubordinati e lavoratori a termine a cui viene chiesto di far di tutto e di più pur di assicurarsi il rinnovo del contratto.

Si tratta degli stessi soggetti per cui lo stipendio lo decide, quasi sempre, il datore di lavoro. Ora, con l'articolo 8, rischiano di essere in larga compagnia. La retribuzione potrebbe diventare per tutti, anche per chi ha un contratto collettivo di riferimento, una variabile su cui intervengono i contratti di prossimità: stipulare intese sull'inquadramento del personale, infatti, potrebbe comportare anche un abbassamento della retribuzione, senza alcun rispetto per la professionalità e le competenze del lavoratore.

Ma l'articolo 8 interviene anche nel concreto svolgimento della propria prestazione di lavoro: sull'orario di lavoro, per esempio, si rischia di dire addio al limite delle 40 ore settimanali, così come sarà possibile una stretta sulle pause, sui riposi giornalieri e settimanali o sul lavoro notturno. Uno scenario simile a quanto accaduto nella nota vicenda della Fiat di Pomigliano (a cui l'articolo 8 della manovra dà il suo imprimatur) e a quello dei lavoratori precari costretti a lavorare con orari che lasciano poco spazio alla programmazione della propria esistenza, chiamati senza preavviso a coprire turni improvvisamente vaganti o a svolgere lavoro extra a parità di retribuzione.

Una stretta è assai probabile anche sul part-time, su cui potrebbe accadere quasi di tutto: il tempo di lavoro potrebbe essere organizzato a seconda delle esigenze dell'impresa e distribuito in modo variabile da periodo a periodo. Qualcosa di simile a quanto avviene oggi ai lavoratori con contratto "a chiamata": una delle tipologie contrattuali introdotte con la legge 30 e ritenute tra le più "precarizzanti".

E ancora, nell'universo delle possibili ripercussioni della nuova norma, ritroviamo la tutela della malattia, potenzialmente soggetta a restrizioni, e tutto ciò che attiene alla "disciplina del rapporto di lavoro", che significa uno spettro particolarmente ampio di ambiti: dal possibile allungamento del "periodo di prova" (oggi di massimo 6 mesi da previsione legislativa) producendo anche per questa via una surrettizia eliminazione dell'articolo 18; alla drastica riduzione degli scatti d'anzianità; all'ampliamento a dismisura dello spettro di sanzioni disciplinari possibili, alla limitazione dei diritti sindacali. Tutte cose che i precari non hanno sostanzialmente mai conosciuto.
25 ottobre 2011© Riproduzione riservata


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Balzo della disoccupazione a settembre
29,3% tra i giovani, ai massimi dal 2004
La percentuale complessiva di chi non ha un impiego arriva all'8,3, ai livelli di novembre 2010. Tra gli under 24 uno su tre è senza occupazione, il dato peggiore da gennaio di sette anni fa. "Inattiva" quasi un'italiana su due: non ha lavoro né lo cerca

ROMA - Nubi nere su giovani e donne. Per loro il lavoro è sempre più un miraggio. Il tasso di disoccupazione a settembre è balzato all'8,3%, dall'8,0% di agosto. Lo rileva l'Istat in base a stime provvisorie, sottolineando che così il tasso si riporta ai livelli del novembre 2010. Tra i giovani (15-24 anni) quelli senza lavoro sono il 29,3%, dal 28,0% di agosto. Si tratta del dato più alto dal gennaio 2004, ovvero dall'inizio delle serie storiche.

Il tasso di disoccupazione a settembre risulta così in aumento di 0,3 punti percentuali sia rispetto ad agosto sia rispetto all'anno precedente. In particolare, quello maschile aumenta di 0,3 punti percentuali nell'ultimo mese, portandosi al 7,4%, mentre quello femminile, con un aumento della stessa entità, si attesta al 9,7%. Rispetto all'anno precedente il tasso di disoccupazione maschile sale di 0,2 punti percentuali, quello femminile di 0,3 punti percentuali.

Stando alle cifre Istat, inoltre, quasi una donna su due in Italia né lavora né è in cerca di un posto, ovvero non rientra né nella fascia degli occupati né in quella dei disoccupati. L'Istat, nelle stime provvisorie, rileva che a settembre il tasso di inattività femminile è pari al 48,9%, mentre quello maschile si attesta a 26,9%. In generale, spiega l'Istituto, il tasso di inattività si attesta al 37,9%, registrando un aumento congiunturale di 0,1 punti percentuali. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni crescono dello 0,1% (21 mila unità) rispetto al mese precedente. Su base annua gli uomini diminuiscono dello 0,2%, mentre le donne inattive aumentano dello 0,5%.

Sull'altro fronte, gli occupati scendono a 22,911 milioni, in calo dello 0,4% (-86 mila unità) rispetto ad agosto. Anche in questo caso la diminuzione interessa sia uomini che donne. Il tasso di occupazione maschile, pari al 67,7%, diminuisce di 0,2 punti percentuali rispetto ad agosto, restando invariato su base annua. Quello femminile, pari al 46,1%, registra una diminuzione di 0,2 punti percentuali sia in termini congiunturali sia tendenziali.


(31 ottobre 2011)

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Sacconi: ''Guardia alta, c'è violenza politica''
Il ministro del Lavoro e Politiche sociali, Maurizio Sacconi, lancia ancora una volta l'allarme terrorismo intervenendo alla trasmissione di Rai Tre, Agorà. "La guardia deve essere alta e non fare come in passato - ha detto - quando si pensò che il fenomeno si fosse del tutto assorbito. E' sotto gli occhi di tutti che c'è una propensione alla violenza politica. In questo Paese c'è continuità tra violenza verbale, guerra civile verbale che sfocia in violenza organizzata "

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chissa chi c e dietro il ministro Sciacquoni!

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Bankitalia: solo un disoccupato
su quattro trova lavoro entro un anno
Secondo l'ultimo rapporto di Via Nazionale solo il 26,7% dei senza lavoro riesce a trovare impiego nel giro di 12 mesi. Solo nel 2008 la chance erano il 33,5%. Le regioni meno in difficoltà sono a Nordest, quelle più in crisi al Sud. Gli over 35 hanno più difficoltà degli altr

MILANO - Se sei disoccupato, alla ricerca di un primo o di un nuovo lavoro, la probabilità di trovare un'occupazione entro un anno risulta pari al 26,7%. In altre parole, poco più di uno su quattro nell'arco di dodici mesi riesce nell'impresa di essere assunto. A fare il calcolo è la Banca d'Italia nel rapporto "L'economia delle regioni italiane", che fotografa nel dettaglio il Paese in base a i dati aggiornati al 2010.

L'indagine rileva come la crisi abbia reso ancora più difficili le condizioni sul mercato del lavoro. Nel 2008 la ricerca di un posto dava più soddisfazioni, con circa uno su tre che entro un anno era in grado di portare a casa un contratto. La probabilità, infatti, di avere successo, secondo le elaborazioni di via Nazionale su dati Istat, era ben più alta, pari al 33,5%.

Le porte si sono chiuse ovunque, la crisi ha così anche appianato le differenze territoriali, ma il gap tra Nord e Sud resta forte. Nel 2010 ottenere un'occupazione rimane molto più facile se ci si trova in Italia settentrionale: le probabilità di firmare un contratto di lavoro nel Nord Ovest è pari al 33% e nel Nord est al 37,2%. Già al Centro la percentuale si riduce al 25,9% per arrivare nel Mezzogiorno al 21,3%.

Chi ha più difficoltà a inserirsi sono gli adulti, spesso si tratta di persone che si ritrovano costrette a ripresentarsi dopo aver già perso un impiego. I disoccupati over 35 sono, infatti, quelli che scontano le probabilità più basse di riuscire ad essere assunti entro dodici mesi. Insomma, una volta usciti dal sistema, come prevedibile, si devono affrontare numerosi ostacoli per rientrare nel giro di un anno.

Ad avere più chances, quindi, sono i giovani disoccupati, per lo più all'inseguimento del primo impiego. Per loro la possibilità di "sistemarsi" tra il 2005 e il 2010 è sempre stata leggermente superiore alla media in tutte le aree del Paese. Tuttavia sono stati proprio i giovani i più colpiti dalla crisi e dal 2008 al 2010 il calo delle possibilità di strappare un contratto per gli under 35 è stato forte e ininterrotto, passando da circa il 35% del periodo pre crisi a neppure il 28% del 2010. Anche per i giovani disoccupati Palazzo Koch registra decisi squilibri territoriali, con la percentuali di successi che nel Nord Est è doppia rispetto al Mezzogiorno.
(13 novembre 2011)

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Precarietà sempre più diffusa, il 70% dei contratti è a tempo determinato. Boom degli incarichi stagionali

Cronologia articolo19 novembre 2011
In questo articolo

Argomenti: Contratti di lavoro | Unioncamere




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Sempre più precario e molto spesso solo stagionale
Sempre più precario e molto spesso solo stagionale. È questo il quadro del mondo del lavoro, come fotografato dall'indagine trimestrale Excelsior, il sistema informativo di Unioncamere e Ministero del Lavoro. Il bollettino, che raccoglie i dati sui dipendenti che le imprese italiane intendono reclutare, sottolinea come delle quasi 92 mila assunzioni programmate quelle a tempo indeterminato saranno poco più del 29%, mentre i contratti a termine, stagionali o di altro tipo, saranno quasi il 71%, ovvero ben più dei due terzi.

Ma a preoccupare di più è la crescita degli impieghi stagionali, destinati a concludersi nell'arco di pochi mesi, se non addirittura di settimane: ormai rappresentano circa la metà delle occupazione non fisse. Il ricorso a rapporti di lavoro deboli secondo l'indagine «riflette un atteggiamento di maggior prudenza delle imprese», probabilmente «dettato dal cambiamento dello scenario economico verificatori negli ultimi mesi».

Quindi le aziende per l'ultima parte dell'anno creeranno occupazione precisamente per 91.800 persone, un numero lievemente inferiore rispetto allo stesso periodo del 2010. Le cifre più interessanti riguardano le modalità di reclutamento. Nel dettaglio il 29,1% (26.713) avrà un posto fisso, il 62,8% (57.650) un contratto a tempo determinato e il 4,7% (4.314) sarà assunto attraverso l'apprendistato. A spiccare è, però, il numero dei contratti stagionali, ovvero di breve se non brevissime durata, che rappresenteranno quasi un terzo delle assunzioni totali (31,3%) e la metà di quelle a tempo.

Il quadro non cambia neppure se si escludono i contratti stagionali. Così facendo l'incidenza degli impieghi «stabili» sale al 42%, ma, spiega il bollettino Excelsior, comunque risultano in calo. D'altra parte anche saltando da un settore all'altro, o dal Nord al Sud «anche nelle migliori situazioni si arriva, al massimo, a un terzo circa del totale» di assunti a tempo indeterminato. E, specifica la stessa indagine, «le poche eccezioni al di spora della media , ad esempio per comprato o provincia, riguardano attività minori per consistenza numerica».

Come se non bastasse l'indagine fa notare che, tra il totale delle assunzioni a termine, incluse quelle stagionali, solo una «quota molto modesta (di poco superiore al 10%)» è finalizzata ad approfondire «la prova» dei candidati in vista della trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro. Il dato la dice lunga su cosa c'è da attendersi, «prefigurando nei mesi a venire una quota di stabilizzazione dei rapporti ugualmente bassa».

www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-11-19/precarieta-sempre-diffusa-contratti-195559.shtml?uuid=...
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17/12/2011 21:43
 
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Canada, addio pensione obbligatoria per limiti di età
"Così i lavoratori più anziani potranno rimanere sul mercato"
Il Parlamento di Ottawa ha proibito, di fatto, ai datori di lavoro di fissare un tetto oltre il quale non sia più consentito lavorare



Pensioni (Ansa)
Montreal (Canada), 16 dicembre 2011- Il Parlamento canadese ha abolito l’età limite per la pensione obbligatoria, proibendo ai datori di lavoro sottoposti alle regolamentazioni federali di fissarne una.
L’esecutivo conservatore ha definito la nuova legge “una vittoria importante in materia di diritti della persona” sottolineando di aver voluto offrire “ai lavoratori più anziani la possibilità di rimanere sul mercato del lavoro”.
In Canada non esiste un’età legale che imponga la messa in pensione, sebbene nella pratica la pensione di anzianità venga corrisposta a partire dai 65 anni (in alcune provincie, come il Quebec, a partire dai 60); solo il governo federale e lo stato del New Brunswick mantenevano la possibilità per i datori di lavoro di fissare un limite massimo.


qn.quotidiano.net/esteri/2011/12/17/638726-canada_addio_pensione_obbligatoria_limi...
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01/02/2012 22:13
 
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ROMA - Lo spread che finalmente scende, anche se l'obiettivo prefissato non è ancora raggiunto, l'impegno preso dall'Italia con la Ue "severo, ma non impossibile", i malumori di alcune parti politiche. Ma soprattutto la riforma del mercato del lavoro e l'addio all'idea del posto fisso: "I giovani devono abituarsi all'idea che non lo avranno. Che monotonia il posto fisso, è bello cambiare", anche se bisogna "avere condizioni accettabili". Mario Monti, ospite del Tg5 e di Matrix, parla dei temi caldi che il governo si trova ad affrontare, sottolineando con un certo ottimismo la capacità del Paese di fare fronte alle difficoltà. E sul suo mandato dice: "Do per scontato che nel 2013 non ci sarò".

Addio posto fisso. Il posto fisso non esiste e i giovani devono abituarsi a questa idea, ha detto Monti nell'intervista a Matrix: "Tutte le cose che stiamo cercando di fare sono operazioni di ricerca della consapevolezza. I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. E poi, diciamolo, che monotonia". Parole destinate a far discutere, pronunciate proprio alla vigilia del tavolo tra governo e parti sociali sul mercato del lavoro. Poi il premier ha spiegato: "La finalità principale della riforma è quella di ridurre il terribile apartheid che esiste tra chi per caso o per età è già dentro e chi fa fatica ad entrare". Frasi tranchant anche sull'articolo 18: "Non è un tabù - ha detto il premier- può essere pernicioso per lo sviluppo dell'Italia e il futuro dei giovani in un certo contesto, ma può essere abbastanza accettabile in un altro contesto", ha detto Monti, sottolineando la necessità di procedere "ad una modifica del sistema di flessibilità in entrata e in uscita". Per Monti è essenziale una "riforma degli ammortizzatori che tuteli il singolo lavoratore quando deve cambiare lavoro, senza legare la tutela del lavoratore a un posto di lavoro che diventa obsoleto". Per quanto riguarda, il confronto, il premier ha detto: ''Sulla riforma del mercato del lavoro è normale che ci sia più dialogo, ma con tempi brevi, da Italia europea'', ricordando che i sindacati ''hanno di fatto accettato la riforma delle pensioni'' varata dal governo. ''A dicembre i sindacati hanno fatto tre ore di sciopero - ha proseguito Monti - non è stata una manifestazione di debolezza, bensì di grande maturità".

Fino al 2013. ''Non so alla fine, nel marzo del 2013 o ad aprile, che ricordo porterò. Ma so che sarà una parentesi chiusa ed immagino che il ricordo sarà positivo solo se l'Italia sarà migliore di oggi. Ce la faremo''. Così il premier ha risposto a una domanda relativa alla durata del sua carica: "Lo do per scontato" che nel 2013 non sarò più al governo, ha detto, ma " non è quello che mi interessa, mi interessa fare bene adesso in questa situazione difficile e spero che tutti si disinterissino di quello che potrà succedere allora per quanto mi riguarda".

L'appoggio di Berlusconi. Monti, poi, suI clima politico, il premier ha detto che i "malumori" sono "normali in una parte politica non più direttamente al governo", il Pdl. Però "l'appoggio" che l'ex presidente del Consiglio Berlusconi dà a questo governo è "particolarmente significativo" e ha aggiunto: "Trovo che l'appoggio di Berlusconi al governo sia fondamentale come lo è quello del Partito Democratico e del Terzo Polo. Venendo da chi ricopriva il ruolo di presidente del Consiglio, è un appoggio particolarmente significativo e questo credo che dia anche internazionalmente il segno di una continuità". Poi ha specificato: "Io non mi aspetto appoggio se faremo cose sbagliate, anzi mi aspetto che saremo invitati ad andarcene ed ovviamente ce ne andremo, ma se faremo cose utili, ma anche migliorabili, credo che dare l'appoggio al nostro governo sia un sevizio reso all'Italia''.

Vincolo con Ue non impossibile. "Un vincolo di bilancio che non è stato preso ieri, ma un anno fa. Certamente è severo, ma non impossibile se saremo capaci - noi e tutti i governi che si susseguiranno - di tornare a far crescere di più l'Italia''. Così il premier parla dell'intesa raggiunta a Bruxelles sulla politica fiscale, sottolineandone l'importanza: "È un accordo importante perché consolida, cristallizza, rende definitiva l'adesione alla disciplina di bilancio - ha spiegato Monti - è un bene per tutti in Ue. Nel 2003 furono Germania e Francia, non paesi del sud, a mettere in discussione questa disciplina, è un punto di arrivo importante anche perché non contiene appesantimenti rispetto a quanto già accettato l'anno scorso nel six pack. Infine è importante perché permetterà ai tutori della disciplina e alla Bce di sentirsi più rilassati nella condotta della politica monetaria degli ultimi tempi e la crescita non sarà più un omaggio verbale, ma il cuore della politica economica europei nei prossimi tempi". E ha aggiunto: "Gli italiani sono chiamati a sforzi importanti e sorprende la grande maturità con cui li stanno affrontando".


Privatizzazioni. Quella di fare delle privatizazioni "è una delle possibilità, ma il governo non ha messo tra le priorità le privatizzazioni anche perché in passato non sempre sono state fatte nel modo migliore", ha detto poi il presidente del Consiglio. "Occorreva prima - ha aggiunto - dare prova che sappiamo fare e accettare una politica di vero contenimento del disavanzo, poi ci sarà spazio per un'operazione sul capitale. Ma l'Italia dispone di un importante capitale pubblico, ma soprattutto di un capitale umano non abbastanza valorizzato. Il nostro sforzo, attraverso una maggiore concorrenza e merito, è quello di valorizzare di più il capitale umano".

Liberalizzazioni. Meglio scommettere sul buon fine della liberalizzazioni se non si vuole finire come la Grecia. Mario Monti difende il pacchetto delle liberalizzazioni e avverte che ''se gli italiani sperano di vedere prevalere le resistenze corporative, allora i tassi ripartiranno verso l'alto e andiamo a sbattere''. Uno scenario drammatico che il presidente del Consiglio, accompagna a una battuta leggera nella forma ma durissima nella sostanza: ''Allora - dice infatti - meglio sarebbe studiare il greco, ma quello moderno...''. "Lo sforzo che faccio con i ministri e il Parlamento è la spiegazione agli italiani che se tutti rinunciamo a qualche cosa, con un disarmo multilaterale dei privilegi e delle rendite staremo tutti meglio, non per solidarietà e generosità ma per il proprio stretto interesse in una prospettiva lunga nel tempo". Poi ha aggiunto: "Sulle liberalizzazioni non abbiamo proposto di toccare solo gli interessi di avvocati, farmacisti, notai e taxisti. Da anni l'Ue chiedeva che nell'energia l'Eni accettasse che il governo imponesse la separazioe della proprietà tra gestione e distribuzione. L'Eni non è certo un interesse debole, ma governo si è inmposto e la separazione ci sarà".

Cittadinanza e legge elettorale. Alcuni argomenti come la bioetica, la legge elettorale, la riforma dei regolamenti parlamentari non sono "parte della missione di governo", ha spiegato Mario Monti,rispondendo a una domanda di Vinci. "Questo governo ha compiti limitati e difficilissimi: rendere l'Italia migliore e più attraente a tutti - ha spiegato Monti-. Svolgiamo questi compiti osservando una distanza di rispetto dai partiti perché ci sono temi importanti che non sono il cuore del mandato ricevuto". Il premier ha aggiunto: "io ho opinioni personali, ma non le considero parti della missione di governo. La cittadinanza, la bioetica, la legge elettorale, i regolamenti parlamentari, sono questioni che devono essere sciolte e dipanate dalle forze politiche". Monti ha concluso: "se, per soddisfare le coscienze dei membri del governo, entrassimo nell'agone del dibattito renderemmo più difficile l'appoggio di larga parte del Parlamento ai nostri sforzi".

Accise e pensioni. ''Potevamo immaginare anche noi'' che l'aumento delle accise sulla benzina ''sarebbe stato un disturbo. Ma quale conseguenza avrebbe avuto non toccarle? Non avremmo potuto proteggere dall'inflazione le fasce più basse delle pensioni'', ha detto il presidente del Consiglio. ''Abbiamo dovuto agire sulla benzina - continua Monti -, ma anche sullo scudo fiscale prendendo anche da lì risorse. Quindi è possibile conciliare diverse esigenze, ma purtroppo facendo operazioni che non possono accontentare tutti''.

Merkel e Obama. "Io bacchetto la Merkel? Ma si immagini e figuriamoci se io la bacchetto... Ci sono stati tanti equivoci su questo: ho una grandissima considerazione per la Cancelliera", ha tenuto a precisare Monti, che ha poi parlato anche del presidente Usa: "Gli Usa sono molto interessati che l'Europa ritrovi fiducia nel mondo e ritrovi sviluppo e vedono un Paese come il nostro che sta uscendo dalla zona problematica, hanno simpatie per questo sforzo e vogliono appoggiarlo anche in sede europea", ha risposto il premier riguardo al prossimo incontro che avrà con il presidente Usa Barack Obama negli Stati Uniti.




(01 febbraio 2012)





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Lavoro, è estorsione la scelta tra i diritti o il posto

di Patrizia Maciocchi
Cronologia articolo1 febbraio 2012
In questo articolo

Argomenti: Norme sulla giustizia | Corte di Cassazione




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Obbligare un lavoratore a scegliere tra i propri diritti e una mancata assunzione o un licenziamento è un'estorsione. Ora lo sa, anche se probabilmente lo sapeva anche prima, l'imprenditore, indagato per estorsione, che si è rivolto alla Corte di cassazione con la speranza di ottenere la revoca degli arresti domiciliari incassando il no degli ermellini. Alla base del verdetto negativo, emesso dalla seconda sezione con la sentenza n. 4290 (si legga il testo sul sito di Guida al diritto) il timore che le misure meno afflittive non fossero sufficienti a scongiurare nuovi "interventi" dell'imprenditore su soggetti che erano stati parte della sua passata vita aziendale o ne facevano parte ancora.

Le minacce
Questi soggetti, non proprio fortunati, erano gli operai assunti nell'azienda del ricorrente con un "patto" che prevedeva il pagamento di un assegno "virtuale", che rispettava il tetto previsto dal contratto collettivo nazionale, peccato che parte dei soldi dovesse essere restituita brevi manu e in contanti. Per chi non accettava il "compromesso" c'era la minaccia della mancata assunzione o del licenziamento. Non contento l'imprenditore si impegnava anche a fare terra bruciata attorno ai "ribelli" mettendo in guardia altri industriali. Una "promessa" messa in atto come risultava dalle intercettazioni telefoniche. Tutto questo per l'indagato era il risultato di una "libera contrattazione", nell'ambito della quale la deroga a quanto previsto dal contratto nazionale o di settore può dar luogo al massimo alla violazione della normativa in tema di lavoro. Nessun dubbio per gli ermellini che nella situazione analizzata gli arresti domiciliari fossero meritati. Le modalità della libera contrattazione sono, infatti, diverse.

www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2012-02-01/lavoro-estorsione-scelta-diritti-173758.shtml?uuid=...
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Posto fisso/ La ricerca: i mammoni non esistono. Ma i figli dei ministri...
Mercoledì, 8 febbraio 2012 - 08:31:00

Giovanni Monti
Giovane, precario e pronto ad emigrare pur di lavorare. Uno sguardo alla realtà occupazionale veramente esistente nel nostro Paese conferma ulteriormente questa equazione, sintomo evidente di uno Stato non in salute. I giovani, anche quelli che restano a casa, non sono “mammoni” o “bamboccioni” ma sono costretti ad esserlo per via di un mercato del lavoro asfittico e non sorretto da percorsi accademici disallineati.

E' questo il quadro che emerge da un'indagine della Fondazione Studi Consulenti del lavoro - categoria di professionisti nei cui studi sono gestiti oltre 7 milioni di rapporti di lavoro - che fotografa la realtà giovanile italiana , in questi giorni al centro dell'attenzione mediatica.

Gran parte degli intervistati non pone alcun limite geografico alla ricerca della propria occupazione, ed anzi, intravede nel lavoro all’estero (88%) una migliore soddisfazione delle proprie esigenze ed aspirazioni. E' così sfatata la falsa rappresentazione dei giovani italiani che non vogliono muoversi da casa (12%) . Il problema, verosimilmente, è strutturale, figlio della crescente inadeguatezza del sistema formativo: l’Università appare sempre più inadeguata a creare professionisti dotati delle competenze effettivamente richieste dalle imprese (90%) , né i percorsi formativi successivi rispondono adeguatamente alle richieste conoscenze specifiche. La crisi, è evidente, c’è, e rappresenta un elemento – negativo – importante per le dinamiche occupazionali, ma è anche vero che non c'è articolo 18, flessibilità o contratto unico che tenga: il motivo per cui non assumono (62%) è l'elevato costo del lavoro ai limiti della sostenibilità aziendale.


Piergiorgio Peluso
Dunque i mammoni che vogliono solo il posto fisso vicino ai genitori, come hanno ripetuto a intervalli regolari gli esponenti del governo, sono davvero pochi. Solo che le parole sprezzanti pronunciate da Monti & Co. hanno fatto davvero infuriare il popolo della Rete che si è immediatamente mobilitato andando a vedere che cosa fanno i figli di quei ministri che più degli altri in questi giorni si sono 'scagliati' contro il posto fisso.

A partire dalla titolare del Welfare, Elsa Fornero. Sua figlia, Silvia Deaglio, di posti fissi sembra averne addirittura due contemporaneamente. E uno di questi è proprio nell'ateneo di mammà e papà (Mario Deaglio). Silvia, a soli 37 anni, è professore associato di Genetica medica alla facoltà di Medicina dell'Università di Torino (quella dei genitori) e responsabile della ricerca alla Hugef, una fondazione che si occupa di genetica, genomica e proteomica umana.

Immediata la replica del ministero che precisa come la giovane Deaglio non ha due lavori, ma è docente universitario pagata solo dall' ateneo, e come la ricerca, alla quale si è dedicata dopo avere lavorato per due anni ad Harvard, è sostenuta da un finanziamento internazionale.

Non sarà vicino casa, come ha stigmatizzato sua madre, ma ha un posto fisso da 500mila euro l'anno il figlio del ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri, il supermanager Piergiorgio Peluso. A soli 42 anni Peluso è stato recentemente promosso da direttore di Unicredit a d.g. di Fondiaria-Sai per traghettare la compagnia dei Ligresti fuori dalla bufera. Attualmente mamma Anna Maria vive a Roma, mentre Giorgio è a Milano, ma certamente tra auto blu e viaggi in business class i due non avranno difficoltà a vedersi.

E il figlio di Monti? Giovanni ha 39 anni e a poco più di 20 era già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, la più potente banca d'affari americana, la stessa in cui il padre Mario ricopre il ruolo di International Advisor. A 25 anni è diventato consulente di direzione da Bain & company, dove è rimasto fino al 2001. Dal 2004 al 2009, vale a dire fino al suo approdo alla Parmalat, Giovanni Monti ha lavorato prima a Citigroup (responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo) e poi a Morgan Stanley (responsabile delle transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa). In effetti lui di lavori ne ha cambiati parecchi per non rischiare di annoiarsi come dice il padre. Solo che erano tutti posti fissi...

affaritaliani.libero.it/economia/posto-fisso-mammoni080212.html?re...
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Fino a quando gli italiani sono materia plasmabile nelle mani di aziende-pigmalioni, bramose di sfruttarne i talenti? «Fino a 50-55 anni», si sarebbe risposto fino a pochi anni fa. Poi si diventa obsoleti come un Commodore 64. La novità è che questa età si è via via erosa. Per i responsabili del personale oggi cominci a essere vecchio già a 45 anni. Addirittura a 40. E questo vale per chi ha l’ormai mitico posto fisso. Quelli che sono fuori, a caccia di un impiego, il problema lo sentono ancora di più.

Chi lo dice? Un po’ tutti. Dai direttori del personale alle società di selezione. E anche il sindacato. Per chi avesse ancora qualche dubbio, il fenomeno è certificato da un’indagine che sarà presentata oggi dall’osservatorio sul Diversity management della Sda Bocconi. I ricercatori dell’università milanese hanno indagato le cause di discriminazione in azienda. Dall’aspetto fisico alla provenienza etnica. Pensavano che, come al solito, il problema principale sarebbe stato la discriminazione di genere, a svantaggio delle donne. Invece, sorpresa:

la maggior fonte di disagio è diventata l’età.



«I lavoratori dipendenti dopo i 45 anni mostrano un’evidente difficoltà. Si sentono inascoltati. E sempre più esclusi. Difficile dar loro torto: le nostre verifiche ci dicono che le carriere si fanno entro i 40 anni. Dopo i 45 le imprese smettono di investire su di te. Basta incentivi alla valutazione della persona. Basta programmi di sviluppo dedicato», è la spietata constatazione di Simona Cuomo, a capo dell’osservatorio sul Diversity Management della Sda Bocconi. «Eppure parliamo di persone che rappresentano oltre il 30% degli occupati del nostro Paese — continua Cuomo —. Le politiche del lavoro del governo e quelle delle singole aziende dovrebbero tenerne conto. Anche perché si tratta di gente che ha ancora voglia di dare».

La sorpresa dei ricercatori Bocconi deriva dal fatto che la stessa indagine viene ripetuta da tre anni e mai si era rilevato che l’età fosse un problema per il 52% dei dipendenti mentre il genere «solo» per il 44%. Seguono altri motivi di disagio come il tipo di laurea: mortificati, nel 32% dei casi, soprattutto i possessori di lauree umanistiche. Per finire, l’aspetto fisico (27% dei casi).

Perché questa tendenza ha subìto un’accelerazione negli ultimi due-tre anni?

Ha una spiegazione il presidente di Gidp, associazione dei direttori del personale, Paolo Citterio: «La crisi ha contribuito. Prima della riforma delle pensioni targata governo Monti si sono utilizzate dosi massicce di prepensionamenti. Con “scivoli” verso il ritiro. Così i 45enni si sono resi conto in un colpo solo di aver perso il treno della carriera e di avere il fiato sul collo di giovani trentenni valorizzati per la disinvoltura con le tecnologie».

Ed eccoci alla seconda motivazione del fenomeno. Le tecnologie, appunto. «Spesso si tratta di un alibi — osserva Enrico Finzi, sociologo e presidente di AstraRicerche —. Le nostre indagini constatano ogni giorno come l’utilizzo di Internet stia diventando familiare anche in classi d’età elevate, ben oltre i quarant’anni. La ragione non detta spesso è un’altra. Gli stipendi dei lavoratori maturi sono più pesanti. E le imprese si fanno tentare. Ma quello a cui stiamo assistendo è un fenomeno drammatico e iniquo. Per di più dannoso per il Paese: si sprecano risorse professionali».

La situazione delle donne merita una postilla. «Qui la frustrazione è massima — aggiunge il sociologo —. Perché spesso si tratta di signore che hanno faticato per guadagnarsi un posto al sole, poi hanno gestito la difficile fase della maternità in azienda. E quando cominciano a sentirsi un po’ più libere perché hanno i figli preadolescenti vengono messe da parte».

Come si diceva all’inizio, il problema riguarda tutti, a tutti i livelli. «Capita che si licenzi un dirigente, a volte anche un quadro, per affidare le sue responsabilità a una persona più giovane e con un inquadramento inferiore che costa meno. Spesso si tratta anche di quarantenni», constata tra gli altri Guido Carella, presidente di Manageritalia, associazione dei dirigenti dei servizi.

Per quanto riguarda i posti da commesso, impiegato o cassiera, basta dare un’occhiata alle inserzioni di ricerca personale. Qui l’età è messa nero su bianco, nonostante sia proibito. E sempre si legge: «Massimo trentenne». «È vero, pochi in Italia rispettano la legge — ammette Gilberto Marchi, presidente di Assores, associazione delle società di selezione —. Va detto, però, che ci sono quarantenni con inglese elementare e scarsa dimestichezza con l’informatica che entrano in crisi appena l’azienda chiede di cambiare città nel raggio di 50 chilometri».

In effetti quella dei quarantenni di oggi è l’ultima generazione salita sul treno del posto fisso. Dopo di loro il diluvio (di contratti a termine e collaborazioni). Ma è anche vero che se fino a 30 anni rischi di fare l’apprendista e dai 40 sei già da buttare, il tempo del fulgore professionale risulta limitato a un batter di ciglia. E allora sorge un dubbio.

Non sarebbe più utile a tutti (anche alle imprese) se invece della carta d’identità si guardasse il merito?


27esimaora.corriere.it/articolo/la-vecchiaia-sul-lavorocomincia-a-...
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Precari, quasi un milione esclusi
dall'assegno di disoccupazione
La mini-Aspi si applicherà solo ai lavoratori subordinati, non agli "indipendenti" come i cocopro. Nel documento approvato dal governo c'è soltanto l'impegno a rafforzare le una tantum previste oggi dalla legge
di VALENTINA CONTE
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Monti: "Riforma non suscettibile di incursioni"
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UN MILIONE di precari senza rete. La nuova riforma del mercato del lavoro, targata Monti-Fornero, rischia di lasciare a piedi ancora una volta i molti già esclusi dalle tutele, gli intermittenti, gli ex milleuristi, le vittime di un mercato "segmentato" tra protetti e non protetti. Proprio coloro che, nelle intenzioni, questa riforma doveva accompagnare nel tunnel della flessibilità "buona" verso la luce della stabilità. E invece abbandona nel "deserto" evocato dal ministro Fornero come il nemico da sconfiggere.

FUORI DA ASPI E MINI-ASPI
Uno su due è sotto i 40 anni e guadagna meno di 10 mila euro lordi l'anno. Quando il lavoro finisce, nessun sostegno. Né Aspi, né mini-Aspi. Zero. Come prima e peggio di prima. L'Assicurazione sociale per l'impiego - l'assegno unico di disoccupazione che dal 2017 sostituirà mobilità e indennità - copre i soli lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, e in più apprendisti e artisti (oggi esclusi da ogni sostegno), che hanno un contratto a termine (determinato, formazione lavoro, part-time, ecc). I requisiti sono stringenti: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane lavorate nel biennio. La mini-Aspi è invece la versione aggiornata dell'attuale assegno "con requisiti ridotti", riservato ancora una volta ai soli lavoratori subordinati che hanno lavorato poco, almeno 78 giorni in un anno, ora diventato "almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi" con durata massima "pari alla metà delle settimane" lavorate nell'anno, dunque al massimo sei mesi, come ora. A conti fatti, però la mini-Aspi è più generosa del trattamento attuale, per una retribuzione media di 9.855 euro l'anno (quella di un precario): chi ha lavorato 3 mesi prenderà 926 euro in tutto (contro i 731 di oggi), ma chi ha lavorato un anno raddoppierà l'assegno (3.700 euro contro 1.800). Il calcolo è lo stesso previsto per l'Aspi: il 75% della retribuzione (fino a 1.150 euro), il 25% dopo, con abbattimento del 15% ogni sei mesi.

L'ESERCITO DEI NON PROTETTI
La mini-Aspi, dunque, non amplia la platea dei protetti, ma sostiene chi oggi ha già un ombrello. Al palo restano 945.141 lavoratori atipici, intermittenti, precari (dati Isfol, 2010). Quasi la metà sono co. co. pro (675.883). Ma si contano anche 52.459 associati in partecipazione, 54.210 co. co. co statali, 49.179 dottorandi e assegnisti di ricerca, 24 mila venditori porta a porta, 27 mila "collaboratori", 8.913 occasionali.

SOLO UN IMPEGNO
La riforma approvata dal Consiglio dei ministri venerdì scorso contiene solo un impegno a rendere strutturale ("a regime") l'una tantum oggi riservata ai co. co. pro. E questa viene considerata una vittoria dai sindacati, visto che le ultime versioni del testo la escludevano. L'una tantum oggi è pari al 30% del reddito dell'anno precedente, con un tetto di 4 mila euro. I requisiti sono molto restrittivi e di fatto l'83% dei fondi stanziati per il triennio 2009-2011 non è stato utilizzato (35 milioni su 200), con il 69% di domande respinte (28.674 su 42.550). Senza una revisione, questo paracadute continuerà ad essere inutile, oltre che limitato.

LE BUSTE PAGA
Il confronto parlamentare sulla riforma dovrebbe tenerne conto, considerando poi che l'aumento dell'1,4% delle aliquote contributive su tutti i contratti a termine - quindi anche del milione di parasubordinati - rischia di scaricarsi su buste paga già ridotte all'osso. Un rincaro che finanzierà proprio Aspi e mini-Aspi, da cui i precari sono tagliati fuori. Beffa e paradosso. E che potrebbe ingrossare - nonostante la stretta che la riforma intende mettere in campo - le fila delle 4 milioni di partite Iva, escluse da tutto, da sempre. Ma ancora "convenienti".

(25 marzo 2012)
www.repubblica.it/economia/2012/03/25/news/precari_quasi_un_milione_esclusi_dall_assegno_di_disoccupazione-3...
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02/05/2012 16:26
 
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ROMA - La Direzione generale per l’Attività Ispettiva ha reso noti i risultati dell’attività di vigilanza svolta dagli ispettori del lavoro delle Strutture territoriali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali nel 1° trimestre 2012. Sono state ispezionate 33.297 aziende e una su due è stata trovata in una situazione di irregolarità. Le ispezioni in cui sono stati contestati illeciti sono, infatti, pari a 16.665.

Nel corso delle attività, sono state verificate 91.683 posizioni lavorative. I lavoratori irregolari sono risultati 31.866 di cui 10.527, ossia il 33% totalmente in nero. Gli importi riscossi a seguito dell’irrogazione delle sanzioni ammontano ad € 32.211.934,00.

Nel corso del primo trimestre sono state sospese 2.163 aziende per l’utilizzo di personale in nero.

Le principali violazioni riscontrate nel periodo gennaio-marzo 2012 hanno riguardato l’illecita intermediazione di manodopera (2.498 lavoratori) e la disciplina in materia di orario di lavoro (5.273). Sono stati disconosciuti 2.830 rapporti fittizi di lavoro autonomo.

Inoltre, sono state riscontrate irregolarità amministrative e penali relative all’occupazione delle lavoratrici madri (81), dei disabili (332), dei minori ( 243).
(02 maggio 2012)

www.repubblica.it/economia/2012/05/02/news/irregolare_un_azienda_su_due_illeciti_in_oltre_16_mila_imprese-3...
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Secondo i calcoli di Facile.it a partire dalla prossima dichiarazione dei redditi, il 51% degli italiani non potrà più ottenere detrazioni per quanto speso per assicurare l'auto. Se la riforma del lavoro attualmente al vaglio del Senato sarà approvata senza modifiche, infatti, ben 18 milioni di italiani si vedranno negare la possibilità di ottenere il rimborso per il contributo al Servizio Sanitario Nazionale incluso nel premio Rc Auto.

«Se fino ad oggi è possibile detrarre il 19% del contributo Ssn presente in tutti i premi Rc - spiega Alberto Genovese, ad di Facile.it - con l'entrata in vigore della riforma Fornero, che intende attingere anche a questa fonte per finanziare i primi 1,7 miliardi di euro necessari a finanziare gli ammortizzatori, potrà essere detratta dalla dichiarazione dei redditi solo la parte dei contributi Ssn eccedente i 40 euro; vale a dire che chi paga una polizza con premio netto inferiore ai 381 euro annui non potrà beneficiarne».

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Modello 730, arriva la proroga: va presentato entro il 16 maggio (al sostituto) o il 20 giugno (al Caf)
Ogni volta che gli italiani pagano la propria copertura assicurativa (vale per tutti i mezzi, non solo l'auto), una quota della propria polizza viene versata al servizio sanitario nazionale, per coprire le spese sostenute per i feriti e delle vittime della strada. Le analisi svolte dal comparatore su un campione di oltre quarantamila polizze emesse negli ultimi due mesi dicono che un italiano su due verrà escluso dalle agevolazioni.

Analizzando il campione, si nota come le regioni più penalizzate da questa scelta del Governo siano quelle in cui i premi assicurativi sono più bassi: Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige sono le aree in cui la percentuale dei cittadini che non avranno più diritto alle deduzioni supera il 70%. In queste regioni gli automobilisti che oggi pagano per la propria polizza Rc un premio netto più basso di 381 euro sono, rispettivamente, il 78% e 71,2% del totale. Saranno meno toccati dalla manovra i cittadini di Campania (10,6%) Calabria (24,9%) e Puglia (30,7%), in cui i premi assicurativi sono mediamente più elevati.

«L'analisi delle polizze emesse - continua Genovese - prova che le persone che continueranno ad avere uno sconto sono quelle meno virtuose alla guida: paradossalmente, chi si trova in una classe di merito peggiore potrà comunque ottenere un piccolo rimborso, cosa che ai guidatori che hanno un migliore profilo assicurativo non sarà più concessa. Oltretutto, dato che si tratta di una deduzione da sottrarre alla base imponibile, i vantaggi maggiori andranno ai redditi più elevati».

www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-05-16/auto-riforma-fornero-scure-123858.shtml?uuid=...
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Riforma del lavoro: la scheda
Art.18, precari e partite Iva


Ecco la legge che introduce le nuove norme sui rapporti di lavoro dipendente e precario. Saranno più facili i licenziamenti individuali per motivi economici, modifiche anche ai contratti dei collaboratori e alla durata dei lavoratori a termine. Stretta sull'abuso delle partite Iva. LA RIFORMA DEL LAVORO: oggi il via libera definitivo


Licenziamenti individuali più facili, una stretta sull'abuso da parte delle imprese delle partite Iva e le retribuzioni dei collaboratori legate ai contratti nazionali di categoria. Queste alcune delle norme introdotte dal disegno di legge approvato oggi alla Camera dopo il passaggio al Senato. Cambiamenti che di fatto mutano i rapporti di lavoro dipendente e precario.
Licenziamenti e articolo 18. Ci sarà maggiore flessibilità in uscita. In caso di licenziamento per motivi economici, non sarà più previsto il reintegro automatico. In alcuni casi, sarà possibile un'indennità risarcitoria. E' la norma che ha fatto discutere di più. Sarà sempre considerato nullo, il licenziamento discriminatorio per ragioni di credo politico, fede religiosa o attività sindacale. Nei casi dei licenziamenti disciplinari, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il giudice avrà un minor margine di discrezionalità nella scelta del reintegro. Con le nuove norme il reintegro sarà possibile solo nei casi previsti dai contratti collettivi. Vengono meno, così, gli altri casi previsti anche dalla legge.

Contratti a termine. Il primo contratto a termine dovrà durare dodici mesi. Il rapporto di lavoro potrà essere stipulato senza specificare la causale, ovvero i requisiti per i quali viene richiesto. Viene aumentata la durata delle pause obbligatorie che devono intercorrere tra un contratto e l'altro. Per un contratto della durata inferiore ai sei mesi, la pausa diventa di 20 giorni (prima era di 10 giorni), mentre per un contratto di durata superiore ai sei mesi la pausa dovrà essere di 30 giorni.

Collaboratori e retribuzioni. Lo stipendio minimo dei collaboratori dovrà fare riferimento ai contratti nazionali di lavoro. Ci sarà una definizione più stringente del progetto con la limitazione a mansioni non meramente esecutive o ripetitive. L'aliquota dei contributi aumenterà di un punto percentuale l'anno. Nel 2018 dovrà raggiungere la stessa aliquota dei contratti dipendenti (il 33 per cento). Restano però molto esigui gli strumenti di sostegno al reddito quando si perde il lavoro. Viene infatti confermata, anche se in parte rafforzata, l'una tantum.

Partite Iva e requisiti. Verranno considerate vere quelle partite Iva che avranno un reddito annuo lordo superiore ai 18mila euro. La durata di collaborazione per chi avrà una partità Iva non deve superare gli otto mesi. Inoltre il corrispettivo pagato non deve essere superiore dell'80 per cento di quello di dipendenti e collaboratori. Il lavoratore non deve avere una postazione “fissa” in azienda. Nel caso in cui si realizzino almeno due delle tre precedenti condizioni, il rapporto di lavoro viene considerato come collaborazione coordinata e continuativa.

Assicurazione sociale per l'impiego. Ovvero tutto quello che non rientra nella cassa integrazione, indennità di mobilità, incentivi di mobilità, disoccupazione per apprendisti e una tantum per i collaboratori. La nuova assicurazione sociale per l'impiego (Aspi), che sostituirà tutte le indennità precedenti, partirà nel 2013 e andrà a regime solo nel 2017. Ci sarà un incremento dell'aliquota dell'1,4 per cento per i lavoratori a termine. Il lavoratore perderà il sussidio, nel caso in cui rifiuterà un'offerta di impiego che prevede una retribuzione di un valore superiore almeno del 20 per cento al valore dell'indennità.

Quanto agli importi, l'Aspi sarà pari al 75 per cento della retribuzione mensile nei casi in cui quest'ultima non superi, nel 2013, l'importo mensile di 1.180 euro. Nel caso in cui la retribuzione mensile sia superiore a tale importo l'indennità sarà pari al 75 per cento dell'importo prima indicato, incrementata di una somma pari al 25 per cento del differenziale tra la retribuzione mensile e l'importo prima indicato. È comunque stabilito un massimale erogabile pari a 1.119,32 euro al mese. Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, il nuovo ammortizzatore sociale Aspi garantirà una copertura economica a 150 mila disoccupati in più rispetto alla situazione attuale.

Apprendistato e assunzioni. Arrivano norme più stringenti. Le aziende che vorranno assumere un nuovo apprendista, dovranno proporre un contratto che in media dovrà durare almeno 6 mesi. Per le imprese che impiegano almeno dieci dipendenti, l'assunzione di nuovi apprendisti sarà subordinata alla prosecuzione del rapporto di lavoro, al termine del periodo di apprendistato, nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 50 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro.

Le donne, l'equità e i voucher asili. Sono introdotte norme di contrasto alle dimissioni in bianco e viene incrementato a tre anni di età del bambino (era di un anno) del regime di convalida delle dimissioni rese dalle lavoratrici madri. Il congedo di paternità diventa obbligatorio, ma solo per un giorno. A questo si aggiungono altri due giorni facoltativi, che però vanno a ridurre il monte delle 20 settimane di congedo della madre. Le madri lavoratrici si vedranno erogati dei voucher per l'acquisto di servizi di baby-sitting da spendere nella rete pubblica dei servizi per l'infanzia o nei servizi privati accreditati. Le madri ne potranno usufruire al termine del periodo di congedo di maternità e per gli undici mesi successivi in alternativa al congedo parentale.

miojob.repubblica.it/notizie-e-servizi/notizie/dettaglio/varata-la-riforma-del-lavoro-art-18-precari-e-partite-iva/4188093?ref...
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Licenziamenti collettivi, giuslavorista: ‘Jobs act incostituzionale, discriminatorio’
Licenziamenti collettivi, giuslavorista: ‘Jobs act incostituzionale, discriminatorio’
Lavoro & Precari
L'analisi del decreto attuativo sull'articolo 18 del professor Umberto Romagnoli: "Se Renzi potesse riscrivere l'articolo 1 della Costituzione, direbbe che la Repubblica Italiana è fondata sulla libertà d'impresa". E fa un esempio: con un solo giorno di assenza ingiustificata l'imprenditore potrà licenziare, senza che il giudice possa valutare
di Stefano De Agostini | 29 dicembre 2014 COMMENTI

Più informazioni su: Costituzione, Fiat, Giuliano Poletti, Governo Renzi, Jobs Act, Pomigliano
Complicata da attuare, potenzialmente incostituzionale e discriminatoria, mirata a bypassare la trattativa sindacale “a un modico prezzo”. Questo, in sintesi, il giudizio del giuslavorista Umberto Romagnoli sull’estensione della riforma dell’articolo 18 ai licenziamenti collettivi contenuta in uno dei due decreti attuativi del Jobs Act approvati dall’esecutivo alla vigilia di Natale. “Il Jobs Act determina un doppio binario nella gestione dei licenziamenti. I nuovi assunti hanno un trattamento di tutela assai meno efficace rispetto ai colleghi al lavoro da più tempo”, sottolinea il professore diventato docente ordinario di diritto del lavoro nel 1970 all’Università di Bologna, che negli anni novanta ha fatto parte della Commissione di garanzia sugli scioperi. Stando al decreto attuativo la riforma, che prevede in quasi tutti i casi la sostituzione del reintegro con un’indennità, si applica ai lavoratori “assunti (…) a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Questa disparità di trattamento, fa notare il giuslavorista, si ritrova sia nei licenziamenti collettivi sia in quelli individuali. Ma con una sostanziale differenza. “Se il provvedimento è collettivo, si presentano ulteriori complicazioni a livello pratico – continua Romagnoli – Tra i vari licenziati, bisognerebbe distinguere tra quelli assunti prima e quelli assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs Act e agire in modo diverso”. Insomma, i dipendenti di lunga data avrebbero diritto al reintegro, gli altri solo all’indennizzo. “Siamo di fronte a un trattamento diversificato che è discrezionale, immotivato, non ragionevole – conclude il professore – Sono situazioni identiche trattate in maniera disuguale. Questa riforma aumenta le divisioni tra i lavoratori”.

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Diretta conseguenza di questo ragionamento sono i profili di incostituzionalità del Jobs Act. “Credo che questo provvedimento non sia legittimo – aggiunge – E’ una legge che costituzionalmente non sta in piedi: viola il principio di uguaglianza riconosciuto dalla Carta”. La previsione, quindi, è che presto partiranno ricorsi per rilevare l’incostituzionalità della norma. “Ma mentre la Consulta deciderà, passerà molto tempo – riflette il professore – Basti pensare all’estromissione della Fiom da parte della Fiat a Pomigliano d’Arco. La Corte impiegò due anni prima di decretare la sua riammissione in fabbrica. Nel frattempo, il danno si produce e si generano lesioni non riparabili“. Un’altra conseguenza dell’estensione delle nuove regole ai licenziamenti collettivi risiede, secondo Romagnoli, nell’ulteriore indebolimento del ruolo del sindacato. “Con il Jobs Act, l’imprenditore potrà evitare la fase della trattativa sindacale che precede l’avvio dei licenziamenti collettivi, pagando il piccolo prezzo della corresponsione delle indennità – ragiona il giurista – Qui si monetizza non solo il diritto alla continuità del rapporto di lavoro, ma anche il potere contrattuale del sindacato”.

A essere ridimensionato dalla riforma, sempre nella visione di Romagnoli, non sarà solo il potere delle sigle sindacali, ma anche quello dei giudici. Il riferimento è a quel passaggio del decreto attuativo dove si contempla il reintegro per i licenziamenti disciplinari, ma esclusivamente nei casi in cui sia “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento“. Secondo il professore “è incostituzionale limitare l’esercizio del potere giurisdizionale. Il giudice deve avere la possibilità di accertare se c’è stata proporzione tra gravità del fatto commesso e la sanzione che è stata inflitta. Con un tratto di penna, il governo ha cancellato un principio di equità”. A sostegno della sua tesi, il giuslavorista porta un esempio pratico: nel caso di un solo giorno di assenza ingiustificata dal lavoro, l’imprenditore potrà procedere al licenziamento, senza che il giudice possa decidere se si tratta di un provvedimento sproporzionato rispetto al fatto commesso.

Eppure, il potere dei magistrati era già limitato, nella pratica, dalla scarsa applicazione dei loro verdetti. “Su dieci sentenze di reintegro, otto non avevano luogo – spiega Romagnoli – Se l’imprenditore non voleva, il lavoratore non riprendeva il servizio”. In sostanza, precisa il docente, era garantita l’erogazione dello stipendio e del versamento dei contributi, ma di fatto il dipendente non era più ammesso sul posto di lavoro, a causa della mancanza di strumenti coercitivi che obbligassero l’imprenditore a dare piena attuazione alla sentenza. E molti lavoratori, pur avendo diritto al reintegro, finivano per accettare il risarcimento. “Anche per questo motivo, i discorsi del governo sull’articolo 18 e sui maggiori investimenti che la riforma dovrebbe attrarre, sono pura propaganda – conclude – Si dice che stiamo andando verso il futuro, ma in realtà stiamo recuperando il passato, con un ritorno al potere unilaterale e tendenzialmente insindacabile dell’imprenditore. Se Matteo Renzi potesse riscrivere l’articolo 1 della Costituzione, direbbe che la Repubblica Italiana è fondata non sul lavoro, ma sulla libertà d’impresa“.

www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/29/jobs-act-licenziamenti-collettivi-giuslavorista-incostituzionale-discriminatorio/...
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Ocse: aumentano le tasse sui salari in Italia, cuneo fiscale al 49 per cento

di Giuliana Licini12 aprile 2016
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Argomenti: Paesi Ocse | Svizzera | Belgio | Francia | Grecia | Cile | Germania | Danimarca | Messico



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È sempre più pesante la mano del fisco sui salari in Italia. In base allo studio “Taxing Wages” dell'Ocse, il cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti - cioè il prelievo complessivo sulla retribuzione lorda - nel 2015 è aumentato di 0,76 punti percentuali al 49 per cento. La Penisola sale così al quarto posto tra i 34 Paesi Ocse per il peso del fisco sul salario del lavoratore medio “single” senza figli, affiancando l'Ungheria e superando la Francia (48,5%) e allontanandosi ancor più dalla media Ocse (35,9%).

Al primo posto resta il Belgio con il 55,3% (-0,3 punti), davanti ad Austria (49,5%, +0,09) e Germania (49,4%, +0,2). L'incremento segnato dall'Italia è il secondo maggiore dell'Ocse, alle spalle del Portogallo (+0,86 al 42,1%) ed è da imputare in toto alle imposte del reddito, mentre sono stabili i contributi previdenziali.

È salita ancor più la pressione fiscale sulle famiglie monoreddito con due figli: il cuneo in media è aumentato di 0,93 punti al 39,9% e pone in questo caso l'Italia al terzo posto tra i sistemi fiscali più voraci. La Penisola è poi al 15esimo posto per costo totale del lavoro (54.484 dollari per dipendente “single” a parità di potere d'acquisto) e al 19esimo per salario lordo con 41.250 dollari. Espresso in valuta nazionale, il salario medio lordo italiano risulta di 30.710 euro, con un incremento dell'1% sul 2014, pari all'aumento della tassazione sul reddito.

In generale, nell'area Ocse nel 2015 il cuneo fiscale si è allargato in 24 Paesi ed è diminuito in otto. In media però è rimasto invariato rispetto al 2014 al 35,9%, dopo essere aumentato di 0,9 punti tra il 2010 e il 2014 e calato di 1 punto dal 36% al 35% tra il 2007 e il 2010.

In base allo studio Ocse (di cui sono stati diffusi oggi solo i primi due capitali, il resto sarà pubblicato a maggio), i Paesi con il fisco più benevolo per il salario medio del lavoratore single e senza figli sono il Cile (cuneo al 7%), la Nuova Zelanda (17,6%) e il Messico (19,7%). Tra gli altri maggiori Paesi, gli Usa sono al 31,7% (+0,02 punti), la Gran Bretagna al 30,8% (-0,15), la Svizzera al 22,2% (+0,05) e il Giappone al 32,2% (+0,26%). Netta la flessione segnata da Spagna (-1,16 punti al 39,6%) e Grecia (-1,27 a 39,3%).

In Italia il cuneo fiscale deriva da imposte sul reddito pari al 17,5% (dal 16,7% del 2014), contributi a carico del dipendente per il 7,2% e contributi a carico del datore di lavoro per il 24,3% che nell'insieme concorrono a portare il cotto totale del lavoro a 54.484 dollari. Al primo posto c’è la Svizzera con 74.255 dollari, davanti al Belgio (74.137) e alla Germania (71.579). La Francia è ottava con 63.562 dollari, dietro all'Olanda (66.900) e davanti alla Svezia (61.350 dollari). Il Regno Unito, 12esimo con quasi 57mila dollari, precede gli Usa (55.500). La Spagna è a 51.400 dollari e la Grecia a 42.700. Chiude la graduatoria il Messico con 14.375 dollari. Le imposte sui redditi più pesanti per i dipendenti sono in Danimarca (35,8% del costo del lavoro) e superano il 20% in Australia e Belgio, mentre sono pari a zero in Cile e al 4,9% in Corea. In Danimarca, però, i dipendenti non pagano contributi previdenziali, così come in Australia e Nuova Zelanda, mentre in Germania sono al 17,2% e in Slovenia al 19 per cento. I datori di lavoro più tartassati sono in Francia (contributi al 27,5%).

Passando al salario lordo (quello che si vede in busta paga), in Italia, dove risulta pari a 41.250 dollari, registra un prelievo complessivo del 32,6%, derivante da un incidenza delle imposte sul reddito pari al 23,1% e da contributi sociali per il 9,5%. Nell'area Ocse i prelievo sul salario lordo più alti sono in Belgio (42%) e Germania (39,7%).


www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-04-12/ocse-aumentano-tasse-salari-italia-cuneo-fiscale-49-cento-111246.shtml?uuid=...
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